Io sono sempre affascinata dalle storie delle donne camioniste degli anni passati. Quella di Irene poi è una storia veramente speciale, in quanto lei fu una delle poche donne camioniste a effettuare viaggi sulla linea del Medio Oriente negli anni ’70. Una vera pioniera!
Sono scritti in tedesco, lingua che non conosco a parte qualche parola, ma con l’aiuto di un amico tedesco, Michi – che parla un pò di italiano – che me ne ha fatto un riassunto, e un po di traduttore sono riuscita a mettere insieme un testo, spero che vi piaccia leggere la sua storia:
“Nel 1973 Irene aveva 17 anni e ancora studiava, ma in primavera riusci a partire col fratello di una sua amica, Ueli, per un viaggio a Teheran. Avevano un mese di tempo e 12.000 km da percorrere per giungere a destinazione. Mentre attraversavano la Jugoslavia comunista, nei pressi di Belgrado, lei si mise per la prima volta al volante di un camion. Non avevano GPS nè cellulare, ma una scatola piena di carte stradali e la posizione del sole come guida. Dopo aver preso confidenza col cambio a 16 marce e con un veicolo lungo 18 metri Irene decise che avrebbe voluto fare la camionista. Con Ueli nacque anche una storia d’amore, lui diventò il suo istruttore di guida segreto e successivamente suo marito e il padre dei suoi figli.
I suoi non erano d’accordo, cosi lei fini i suoi studi, fece l’apprendistato come infermiera, ma nel frattempo consegui le patenti per guidare i camion senza dire niente a nessuno.
Finita la formazione mise i suoi familiari di fronte al fatto compiuto, nonostante loro non fossero per niente d’accordo, anzi pensavano che fare la camionista piuttosto che l’nfermiera fosse un passo indietro dal punto di vista sociale.
Ebbe molte avventure nei dieci viaggi che fece in Iran, il percorso era sempre lo stesso ma succedeva sempre qualcosa di diverso. Piccoli guasti da risolvere, infinite pratiche burocratiche da sbrigare quando si attraversavano i confini. Una volta, grazie alla sua formazione da infermiera, aiutò addirittura un collega svizzero che si era ammalato a tornare a casa occupandosi di lui.
Durante i lunghi tempi di attesa a destinazione per lo scarico, Irene girava per i bazar della città e comprava provviste. Successe che un giorno un uomo le tagliò da dietro i suoi capelli, raccolti in una coda di cavallo, per motivi religiosi. “Come camionista, probabilmente ho minacciato troppo il suo modo di pensare patriarcale” dice. Da allora indossò sempre un cappello.
Negli anni ’70 numerosi svizzeri si recavano in Iran o addirittura in Pakistan con i camion. Irene descrive questo periodo come un “boom orientale”. Viaggiava sempre con suo marito. Insieme hanno portato a Teheran interi rimorchi pieni di asciugacapelli, macchine da cucire e persino una Range Rover.
Spesso diversi conducenti si univano per formare piccoli convogli. I camionisti si incontravano nei parcheggi lungo il percorso, o alle fontane dove si fermavano a fare rifornimento di acqua, o nelle leggendarie aree di sosta per camion. Erano sempre tutti contenti di unirsi a loro, Ueli aveva molta esperienza e parlava diverse lingue. Anche la formazione di Irene come infermiera era un vantaggio.
Due anni dopo la caduta dell’Iran nelle mani dei Mullah, Irene voleva tornarci nuovamente. Ma i problemi cominciarono con l’ambasciata iraniana a berna, non volevano rilasciale il visto. Pensavano che Irene fosse una giornalista sotto copertura. Cosi lei prese il suo camion e lo parcheggiò direttamente davanti all’ambasciata bloccandone l’ingresso. “Ha funzionato, ho ricevuto i documenti il giorno stesso.” dice.
A quel tempo erano pochissime le donne che viaggiavano verso l’ Oriente. Successivamente, mentre guidava sulle strade d’ Europa, ha incontrato altre donne camioniste.
Dopo i cambiamenti politici degli anni ’80, l’Arabia Saudita era l’unica destinazione rimasta per le merci dirette in Medio oriente. Ma li alle donne era vietato guidare. Cosi da allora viaggiò per l’Europa da sola, senza il marito Ueli. Dopo essere scampati per un pelo al furto di un camion e a una valanga, lei e suo marito hanno deciso di stabilirsi.
Dall’inizio del millennio non esistono più camionisti svizzeri a lunga percorrenza, spiega Irene. Ci sono quasi solo gli europei dell’Est che lavorano per salari bassissimi. Ciò significa che in Svizzera è crollato un intero settore.
Per commemorare quell’epoca ha scritto e illustrato un libro nell’ambito del progetto culturale “Edition Unik” . In esso racconta la sua storia e quelle di dieci colleghi, quasi cinquant’anni dopo essersi messa per la prima volta al volante di un camion. Il libro si può ordinare per e-mail: vrthr@bluemail. ”
Dal blog “Anche io volevo il camion” dal sito web di Uomini e trasporti, questa volta Elisa Bianchi ha raccolto la bella storia della nostra collega e amica Marcela!
Marcela Tauscher: «Impariamo a perdere qualche ora in cambio di più umanità. Solo così possiamo ritrovare il bello di questo mestiere»
Marcela Tauscher è in cabina dal 2014, ma per trovare il coraggio di cambiare vita le ci sono voluti dieci anni (le patenti le conservava nel cassetto dal 2004) e un trasferimento dalla Romania in Italia. Oggi sostiene le giovani autiste offrendo loro consigli e informazioni utili perché, sostiene, «non basta avvicinare le donne al settore, ma l’obiettivo è fare in modo che queste ragazze rimangano»
«Non amo i cambiamenti, ma quando li faccio sono radicali». E in effetti, di cambiamenti nella sua vita Marcela Tauscher ne ha fatti pochi ma importanti. Nel 2006 arriva in Italia dalla Romania dove è nata e cresciuta. La sua famiglia, di origine tedesca, si era spostata nell’Europa dell’Est per fuggire dalla Guerra. Nei primi anni Duemila una zia di Marcela decide di venire in Italia e lei, qualche tempo dopo, la segue. Arriva a Mantova che non parla una sola parola di italiano. Se la sentiste parlare oggi, stentereste quasi a credere che non sia madrelingua. «È merito dei molti amici che ho conosciuto in Italia e a cui devo moltissimo» ci racconta. È proprio grazie agli amici che Marcela, dopo una prima e brevissima esperienza come badante per un’anziana signora, trova lavoro in una fabbrica di confezionamento di calze e intimo. Ci resta per sette anni, poi, ancora una volta, il supporto e la motivazione degli amici la spingono a prendere la decisione che prima di allora non aveva mai avuto il coraggio di prendere: cambiare di nuovo vita e salire in cabina. È il 2014 quando Marcela trova il primo lavoro come autista e da allora non è mai più scesa dal camion. «Ho il gasolio nel sangue – racconta ridendo – avevo bisogno solo della giusta dose di coraggio». In effetti, Marcela conserva le patenti nel cassetto già da dieci anni. «Le presi in Romania nel 2004 – ci spiega – ma poi sono rimaste lì, perché mi è sempre mancato il supporto di qualcuno che mi spronasse a provarci davvero».
Quando la raggiungiamo per telefono Marcela è in viaggio. Si trova a Napoli, direzione Rotterdam, ma è partita il giorno prima da Genova. Il programma della settimana è fitto: arrivo programmato nei Paesi Bassi per il venerdì sera, scarico il lunedì mattina della settimana successiva e poi rientro. Le settimane di Marcela scorrono in cabina, il tempo per rientrare a casa è pochissimo, ma non le pesa affatto. «Con il mio precedente lavoro – ci spiega – rientravo a casa tutte le sere, ma avevo sempre qualcosa da fare. Oggi invece ho più tempo a disposizione per me stessa perché quando ho un riposo lungo in camion posso davvero rilassarmi».
Il precedente lavoro di cui Marcela ci parla era anche il primo come autista. Le chiediamo quindi se per lei sia stato facile entrare nel mondo dell’autotrasporto. «Il primo lavoro è arrivato grazie alle conoscenze di un caro amico. Ho iniziato con il furgone, poi la motrice e la biga. Trasportavo colli di intimo negli outlet, ma nel 2020 con il Covid il lavoro è inevitabilmente calato e ho dovuto trovare un’alternativa. Così sono entrata in Autamarocchi, per la quale trasporto container».
Oggi Marcela ha (quasi) 42 anni e il “supporto psicologico”, come lo definisce lei, che le è mancato agli inizi della sua carriera come autista cerca di offrirlo alle giovani ragazze che, come lei dieci anni fa, sono alle prime armi e hanno bisogno di un po’ di aiuto. «Ultimamente si vedono tante nuove ragazze giovani, soprattutto straniere. Così ho creato insieme ad altre colleghe un gruppo Whatsapp per noi “containeiriste”, per aiutarci a vicenda. Ci scambiamo qualche informazione utile, qualche consiglio, così le nuove leve sanno che possono contare sul supporto di noi più anziane, perché non bisogna dimenticare che non basta avvicinare le donne al settore, ma l’obiettivo è fare in modo che queste ragazze rimangano. Il mio contributo è semplicemente quello di aiutarle a vedere il bello di questo mestiere».
E quale è per te il bello di questo mestiere?
«La cosa che mi piace di più è la possibilità di conoscere sempre persone nuove, di creare nuove amicizie. Trovo molto interessante l’aspetto più psicologico di questo mestiere, se così lo possiamo definire, anche se oggi è sempre più difficile trovare persone che abbiano ancora voglia di ridere e scherzare».
A cosa è dovuta questa mancanza di entusiasmo, secondo te?
«Sento molti colleghi lamentarsi, molti sono stanchi, ma ognuno ha le proprie ragioni e non trovo utile giudicare le altre persone perché ognuno fa percorsi di vita e professionale differenti. Io faccio questo lavoro con passione e sono felice così».
Però alcune difficoltà sono oggettive.
«Sì, ma il modo in cui si affrontano i problemi dipende dal carattere di ciascuno. La mia filosofia di vita è di trovare sempre un modo per adattarmi, altrimenti si rischia di passare la vita a stare male. Per esempio, quando sono arrivata in Italia mi sono adattata alla cultura italiana e oggi infatti sono diciotto anni che mi sono qui e mi trovo benissimo».
Ma esiste un modo per trasmettere di nuovo la passione per questo mestiere?
«Ci vorrebbero più esempi, per esempio ex autisti, oggi più anziani, che possano far crescere i giovani. Insomma, qualcuno che possa trasmettere questa passione. A me, per esempio, piace molto ascoltare i racconti dei veterani, del grande Zingaro, Vittorio Spinelli, per dirne uno».
Di veterane ce ne sono diverse anche nel Lady truck Driver Team “Buona strada”, di cui fai parte. Come sei entrata in contatto con questa realtà?
«Ho conosciuto le ragazze del gruppo molto prima di salire in cabina, quando ancora lavoravo in fabbrica. Allora già indagavo su come fosse la vita da camionista donna, così seguivo quello che facevano, i loro viaggi. Poi le ho incontrate di persona e da quel momento per me sono diventate di famiglia».
Il resto dell’intervista lo potete leggere sulla pagina di Uomini e trasporti.
TPL Linea regala un’altra storia aziendale (e di vita…) davvero speciale, protagonista Floarea-Ana Bulgaru, originaria della Romania ma ormai italiana a tutti gli effetti anche grazie alla sua professione, che la vede alla guida dei bus dell’azienda di trasporto savonese.Laureata in Economia, Turismo e Servizi – Academia di Studi Economici di Bucarest nel 2006. In Romania ho lavorato all’Ispettorato Scolastico, in alcune ditte private e presso l’Ansamblo artistico-professionale “Baladele Deltei”, sempre nella città natale di Tulcea. Attiva nella vita socio-culturale e nel volontariato. Prima dell’ingresso in TPL Linea l’esperienza in una azienda di trasporto, con l’acquisizione di patente e requisiti di abilitazione professionale. Oltre al rumeno e alla lingua italiana, anche grazie alla sua formazione universitaria conosce l’inglese, il francese e l’ucraino.
Floarea-Ana è riuscita ad entrare in azienda con un concorso nel gennaio di quest’anno e così ricorda alcuni aneddoti del suo lavoro quotidiano: “Che bello vedere una donna che guida la corriera…”; “Fa piacere vedere che, ogni tanto, anche le donne guidano gli autobus, è una grande responsabilità..”. Queste alcune frasi dette alla salita del bus vedendola per la prima volta al volante del mezzo pubblico.
“Prima ho lavorato per una ditta privata di trasporto, ma quando è uscito il concorso per TPL linea ho deciso di partecipare e alla fine è andata bene”.
“Da bambina, quando ero in prima superiore, con il coro liceale ho partecipato a un concorso nazionale di musica per la pace nel mondo. Mi ricordo che sognavo di vivere in un mondo con altri bambini, di altre culture, in pace e armonia” dice ancora l’autista di TPL Linea, operativa in particolare nel territorio valbormidese e nel servizio di trasporto scolastico, a contatto diretto proprio con i bambini.
“Inizialmente avevo pensato di fare l’autista di camion, ma poi un nostro amico, ex-autista TPL, mi ha consigliato di provare con i pullman visto che si cercavano conducenti per gli scuolabus. Abituata a lavorare con bambini e i giovani ho deciso di provare, riuscendo a raggiungere l’obiettivo con mia grande soddisfazione”.
Non mancano altri excursus personali, che rimandano all’importanza della sicurezza stradale: “Le paure sono tante! Sono stata investita da una macchina, sulle strisce pedonali, quando ero in prima elementare. Fino a 20 anni avevo gli incubi… Mi sono resa conto che se non avessi superato da sola le mie paure, nessuno l’avrebbe fatto per me. Così dopo un anno di Università ho preso la patente e ho sconfitto certe angosce proprio con la guida, alla quale mi sono subito appassionata. Da bambina mio padre, comandante della nave Polizia, mi ha insegnato a condurre le navi sul Danubio, una emozione unica e particolare sempre nel mio cuore”.
“Per quanto riguarda la responsabilità, sì, è tanta! E’ un lavoro molto delicato che non ti permette un attimo di distrazione. L’autista del pullman è come il macchinista di un treno, un comandante della nave, un pilota d’aereo… Ha la responsabilità di tante vite durante il suo tragitto quotidiano” aggiunge ancora l’autista in forza a TPL Linea. “Mi ricordo che in Romania quando salivo in corriera sapevo che da quel momento la mia vita, e quelle delle mie figlie, era nelle mani dell’autista, per questo avevo grande stima e rispetto nei suoi confronti. Tuttavia, lo ammetto, allora non avrei mai pensato di fare questo lavoro…”.
“Essere conducente di un mezzo di trasporto pubblico richiede tanta attenzione ed energia. Il contatto con le persone è molto importante e necessita anche di saper gestire al meglio certe situazioni. Ma alla fine, cosi come diceva mio padre: “La stanza è piccola, l’amore è grande, per questo la cosa più importante è mettere l’amore in tutto quello che fai…”.
Il suo pensiero è infatti rivolto al caro papà scomparso da poco tempo: “E’ stato proprio lui a trasmettermi la passione per la guida” racconta Floarea-Ana, in Italia dal 2010, sposata e con due figlie: “Una persona meravigliosa, che mi ha sempre amata e mi ha consigliato di studiare, di scrivere…”.
E l’autista Floarea-Ana prosegue ancora nella sua intima narrazione: “Quando sono arrivata in Italia devo riconoscere che ho trovato difficile coniugare vita familiare e professionale. Solo dopo anni, visto che le nostre figlie sono cresciute, ho deciso di rimettermi in gioco, cambiando totalmente profilo e indirizzo professionale” racconta ancora l’autista, che ha voluto seguire il marito che si trovava già in Italia per lavoro, prima a Montichiari, in provincia di Brescia, poi la residenza a Millesimo, in Val Bormida.
“Il cambio di lavoro è stato certamente difficile, ma dobbiamo adattarci alle nuove sfide. In questo devo ringraziare i miei colleghi di TPL Linea, molto disponibili a spiegarmi aspetti tecnico-professionali che non conoscevo. Avere vicino una squadra è davvero essenziale. In azienda, infatti, ho trovato persone straordinarie non solo a livello professionale, ma anche umano. Quando è mancato mio padre mi sono stati vicini e mi hanno sostenuto in un periodo molto delicato…”.
Ecco poi la sua speciale iniziativa durante il servizio scuolabus nei comuni valbormidesi: “Sono mamma anch’io, e come ogni mamma spero che le mie figlie possono passare il maggior tempo possibile in bella compagnia. Così sullo scuolabus ho istituito “Radio News – Scuolabus”, al suono della campanella accolgo i miei ragazzi dandogli il ben venuto e presentando la giornata!”.
“La vita è fatta di piccole cose, e proprio per questo condividiamo i nostri momenti più belli, cantando tanti auguri ai festeggiati, ma anche mandando baci e abbracci agli amici malati, oppure tifando per i nostri sportivi del cuore, fino a cantare assieme…”.
E Floarea-Ana lancia poi il suo messaggio finale: “Mi piacciono i fiori, ma nessuno è cosi bello come quelli raccolti dai bambini per farmi qualche sorpresa… Mi piacciono le foto, ma non sono riuscita mai a farne una cosi bella come sono loro quando scendono e vedono i loro cari, svelate l’amore in mille colori…”.
“La pace di domani inizia con l’amicizia di oggi” conclude l’autista dell’azienda savonese, ricordando il motto di un Festival Internazionale in Romania a lei caro, “Il pesciolino d’oro”.
Questa volta girando e rigirando nel web ho ritrovato questa video intervista fatta alla nostra portavoce, la Gisy!
E’ datata 25 gennaio 2008! Sono passati ormai 16 anni da allora e tante cose sono cambiate nelle nostre vite, i camion, i tragitti, ecc, però è bello riascoltare le sue parole, risentire la sua storia che poi è quella delle donne camioniste, siamo in poche oggi come allora, e anche se per fortuna ci sono tante nuove colleghe, la percentuale rispetto agli uomini è ancora bassa.
Quando il giornalista le chiede cosa significa avere il camion nel cuore, lei risponde cosi:
“Avere passione per i camion significa essere pazienti, tolleranti, cocciute, perseveranti, un sacco di qualità che se non le hai, se non hai quest’alchimia non resisti, è un mestiere molto pesante, molto impegnativo, imprevedibile, devi avere quel pizzico di dote in più che ti permette di cavartela in qualsiasi evento ti possa succedere.”
Annamaria Ciancia, la vita «in cabina» di una delle prime autiste italiane
Il 24 dicembre Annamaria Ciancia compirà 67 anni. Dopo oltre quattro decenni come autista, tra un anno dovrà appendere il volante al chiodo, ma lei non ne vuole sapere. Ripercorriamo la carriera di una delle prime donne italiane ad aver preso la patente C
La storia di Annamaria Ciancia parte da quello che ormai è quasi un epilogo: «Il prossimo anno compirò 68 anni e dopo 44 anni alla guida di un camion sarò costretta a lasciare il volante» ci racconta. Nella sua voce si avverte una nota amara. «In Italia a 68 si è considerati vecchi, senza valutare il reale stato di salute di una persona. Il risultato è che ti declassano la patente. Niente più mezzi al di sopra dei 200 quintali. Al di sotto, invece, a quanto pare si è ancora liberi di fare danni. Sinceramente non voglio pensare a cosa farò l’anno prossimo, mi sento già male al pensiero che dovrò lasciare il mio lavoro». Facciamo allora un salto indietro di 44 anni e ripercorriamo la carriera straordinaria di Annamaria, una delle prime donne – ci tiene a ricordarlo – ad aver preso la patente C in Italia, quando le donne alla guida di un camion ancora erano un miraggio.
Quando sei salita su un camion per la prima volta?
Fu con il mio ex marito, un autista che viaggiava principalmente all’estero. Sono sempre stata appassionata di motori, amavo il rally, il motocross, e così dopo una breve esperienza come insegnante di scuola materna e come impiegata per le Assicurazioni Generali, decisi di lasciare il mio lavoro – che non mi rappresentava affatto – per seguirlo. Abbiamo viaggiato in Belgio, Inghilterra, Francia e Germania e più viaggiavo più questo mondo iniziava a incuriosirmi. All’estero di donne autiste già se ne vedevano, quindi è stato spontaneo per me pensare che avrei potuto farlo anche io. La prima volta che mi misi al volante fu in un’area di sosta in Francia, un posteggio enorme e deserto. Fu quella la mia prima guida, da allora di strada ne ho fatta parecchia.
In Italia però, al contrario di quanto accadeva all’estero, di donne autiste ancora non ce ne erano. Come è stata accolta la tua decisione?
Un giorno dissi a mio marito che non sarei partita con lui, ma che sarei andata a scuola guida a informarmi per la patente. Non era d’accordo, ma la mia decisione ormai l’avevo presa: al suo ritorno ero già iscritta e poco tempo dopo conseguii la patente C e la patente E. Tra l’altro ricordo che al mio esame l’esaminatrice era una donna che rimase piacevolmente sorpresa vedendomi. Quando diedi l’esame per la patente E, invece, trovai un uomo che era piuttosto spaventato dal fatto che a guidare fosse una donna. Mi diede la patente praticamente subito, perché voleva restare a bordo con me il meno possibile.
E il lavoro come è arrivato?
In realtà, per dieci anni ho dovuto continuare a viaggiare con mio marito. L’idea che una donna guidasse un camion da sola era fuori discussione. Ma quando mio marito decise di intraprendere un’attività sua, relegando me alla gestione degli aspetti burocratici, non ce la feci più. O meglio, resistetti per qualche anno, poi ci lasciammo e io decisi di trasferirmi dal Piemonte alla Lombardia, dove c’erano più opportunità. Rincominciai da capo lavorando come operaia, poi un giorno bevendo un caffè conobbi un autista. Gli raccontai la mia storia e mi propose di fare qualche viaggio con il fratello. Dopo tre settimane con lui ebbi finalmente il suo benestare. Potevo riprendere il mio lavoro di autista per la sua azienda.
Oggi che cosa guidi e che cosa trasporti?
Oggi guido il mio sogno: un Volvo FH. È stata una sorpresa del mio principale e di sua moglie. A febbraio sono stata operata all’anca e al mio rientro al lavoro mi ha fatto trovare il camion che avevo sempre desiderato. Oggi trasporto latte, panna, vino, olio, qualche volta capita anche di trasportare distiller e melasso, prodotti che vanno nelle stalle. Con il trasporto alimentare ho trovato la mia dimensione, nonostante abbia cambiato tante aziende e tanti tipi di trasporto nel corso di questi anni, sono certa che finirò la mia carriera nell’azienda in cui lavoro da due anni e mezzo: l’Autotrasporti Boaglio di Cardè, in provincia di Cuneo.
Non ti dai pace all’idea che il prossimo anno dovrai smettere, ma la tua è una vita frenetica. Non sei stanca?
Passo fuori casa tutta la settimana, weekend compresi perché con il trasporto alimentare i sabati e le domeniche non si riposa – salvo restando le pause dovute – viaggiando per il Nord Italia, ma vivo malissimo l’idea che l’anno prossimo dovrò fermarmi. Ho sempre fatto il mio lavoro con amore. Questo non significa che sia facile o che tutti i giorni siano perfetti, ma io sono felice di viaggiare con il mio camion. Mi rendo conto che per molte persone possa sembrare strano, ma io mi sento ancora energica. Certo il mio corpo non è più quello di quando avevo 25 anni, ma sono ancora in grado di fare il mio lavoro. Non accetto che mi venga detto il contrario. Non sarebbe quindi più logico fare come all’estero? Con le visite adeguate potrei continuare a lavorare. Bisognerebbe basarsi sulla persona, non sull’età. Per non parlare del fatto che i veri pericoli non sono le persone con esperienza che fanno questo mestiere con amore.
A cosa ti riferisci?
Una volta chi viaggiava sul camion lo faceva per passione, oggi purtroppo ci sono tante persone che lo fanno solo per esigenza, senza avere nulla a che fare con questo mestiere. Il fatto è che per viaggiare non basta avere la patente, serve avere passione per diventare un buon autista, e vale sia per gli uomini che per le donne. Quando si è alla guida di certi mezzi bisogna essere consapevoli della responsabilità che si ha, serve la giusta preparazione, oltre all’entusiasmo. Allo stesso tempo, però, non basta solo la passione, ma serve più rispetto per chi fa questo mestiere. Negli anni passati molte aziende se ne sono approfittate giocando al ribasso degli stipendi. Se qualcosa non cambia, arriverà il giorno in cui i camion resteranno fermi nei posteggi.
La preparazione adeguata dovrebbe arrivare dalle scuole di guida.
Oggi è più difficile prendere le patenti, ma si fa meno attenzione a quello che si insegna. Servirebbero lezioni specifiche sull’importanza di certi gesti e manovre da evitare. Non solo quando si studia per prendere le patenti del camion, ma per qualsiasi patente. Per esempio, sarebbe opportuno insegnare anche agli automobilisti che un camion ha delle zone d’ombra, degli angoli ciechi. Non è sempre colpa degli autisti. Servirebbe sensibilizzare un po’ di più tutti gli utenti della strada.
Parliamo invece delle donne autiste. Tu sei stata una delle prime in Italia. Che prospettiva futura vedi?
Non posso dire di vedere oggi parecchie donne alla guida di un camion, ma sicuramente di più di una volta. Qualche mese fa mi trovavo in un’area di servizio, stavo camminando con il mio cagnolino Trilli, un pinscher che viaggia sempre con me, quando ho sentito un signore esclamare «Complimenti!». Sinceramente pensavo si riferisse a Trilli. Poi ho capito che era entusiasta del fatto che fossi io l’autista. Mi ha detto di avere una ditta di autotrasporti e tra i suoi autisti anche una donna ma, soprattutto, di essere talmente contento che se gli arrivassero altre candidature da parte di donne le assumerebbe all’istante. Mi ha fatto piacere. Non nego che ancora oggi ci siano colleghi che non apprezzano, ma credo che stia tutto nell’intelligenza del singolo individuo.
(….) l’articolo continua nella pagina di Uomini e trasporti.
Cambiare vita e realizzare i propri sogni, quelli abbandonati in fondo ad un cassetto, è quello che ha fatto Palmira e che ci racconta in questa bella intervista di Elisa Bianchi, come sempre dal blog “Anche io volevo il camion” di “Uomini e Trasporti”.
Palmira Mura, «Sono un’autista con il cuore da OSS»
A 50 anni cambia radicalmente la sua vita: dopo anni passati in corsia come Operatrice Socio-Sanitaria e aver lavorato in reparto Covid nei mesi più duri della pandemia, Palmira Mura ha scelto di ripescare un sogno lasciato nel cassetto. Prende le patenti, saluta figli e nipoti e parte per la linea. In cabina oggi vive la sua “seconda gioventù”
«Sono un’autista con il cuore da Operatrice Socio Sanitaria, il lavoro che ho svolto per una vita prima di salire in cabina». Si presenta così Palmira Mura, 52 anni “portati con orgoglio” e originaria della Provincia di Oristano, ma trapiantata nel Nord Italia fin da piccolissima.
La raggiungiamo al telefono mentre è impegnata al volante. Si trova sull’A1, direzione Varese. Davanti a lei circa 500 km di strada da percorrere. «Sto trasportando del vino in questo momento – ci dice – ma è un carico sporadico. Normalmente porto materie prime, soprattutto plastica».
Dall’agosto 2021 Palmira lavora per un padroncino di Piacenza, Piccoli Riccardo. «È un’azienda piccola – spiega Palmira – ma con la quale sogno di andare in pensione perché qui sento di aver trovato finalmente il mio posto». Palmira è l’unica donna della flotta ed è anche l’unica ad aver scelto di cambiare vita a 50 anni. Una scelta radicale che arriva dopo uno dei periodi più bui degli ultimi anni, non solo per Palmira ma per tutti noi. «Come OSS ho lavorato nei reparti Covid per tutto il periodo della pandemia. È stato doloroso, ho vissuto la solitudine e la sofferenza delle persone, anziani che morivano senza l’affetto dei propri cari, senza la possibilità di dare loro una carezza. Ho dato tutta me stessa al mio lavoro in quei mesi e una volta superato il peggio mi sono resa conto che avevo finito le energie, non avevo più nulla da dare, dovevo cambiare. Siamo solo di passaggio in questa vita quindi mi sono detta: perché no, perché non riprendere in mano il sogno dell’autotrasporto lasciato nel cassetto tanti anni fa».
Perché l’avevi accantonato?
Furono i miei genitori a mettermi in testa l’idea di prendere le patenti. Mio papà aveva la C da quando aveva fatto il miliare e mia mamma negli anni ’80 guidava un Daily telonato, faceva le consegne a Milano e dintorni. Non mi sarebbe dispiaciuto seguire i progetti che avevano per me, però le cose andarono diversamente: quando avevo 19 anni nacque la mia prima figlia, Mariangela. Seguirono poi altri tre figli: Andrea Francesca, Matteo e Martina. Così accantonai l’idea di mettermi al volante e presi l’attestato da OSS. A dire il vero nel 2015 provai a tornare sui miei passi. Dopo la separazione da mio marito feci l’orale della C e lo superai, ma al momento di iniziare le guide i soldi scarseggiavano e così lasciai perdere un’altra volta.
Il momento giusto è arrivato nel 2021. Come è andata?
All’inizio lavoravo di giorno e la sera andavo in scuola guida, seguivo delle lezioni private. Fortunatamente ho trovato supporto da parte di tutti, sia dei mei figli – soprattutto le ragazze – ormai già grandi e che mi spronavano a inseguire il mio desiderio, sia dell’Azienda sanitaria per la quale lavoravo. Mi sono licenziata solo prima di conseguire le ultime patenti, investendo tutti i soldi della liquidazione per poterle completare, perché le cifre si sa, sono importanti.
Un salto nel buio…
Sì, ma tramite mio fratello, anche lui autista, sono riuscita ad avere un colloquio con quella che oggi è l’azienda per cui lavoro. Nessuno ci avrebbe scommesso perché ero una donna di ormai 51 anni senza esperienza, eppure credo che il mio capo abbia visto in me la volontà di metterci il massimo dell’impegno. Da allora ho fatto tanti errori e ho versato tante lacrime, lo ammetto, ma oggi posso dire che la donna che sono è il risultato delle difficoltà che ho saputo affrontare. Non da sola, naturalmente. Devo tantissimo all’aiuto di colleghi e amici con più esperienza di me.
Come è la tua vita oggi?
Non mi annoio mai. Faccio la linea, una media di due scarichi e un ricarico al giorno. La mia casa per tutta la settimana è la cabina, mentre nel weekend torno a essere la mamma e la nonna di sempre.
Il rapporto con i tuoi figli è cambiato?
Questo cambio di vita è arrivato quando i miei figli erano già grandi; quindi, in realtà, il rapporto con loro si è rafforzato perché se prima ero spesso stanca e nervosa, oggi quando rientro abbiamo sempre qualcosa da raccontarci. I miei quattro nipoti, Gaia, Eleonora, Eduardo e Greta, che vanno dai 7 anni ai 9 mesi, posso godermeli nel weekend, anche se mi piacerebbe poterli coinvolgere, fargli vedere da vicino cosa faccio, come funziona il mio lavoro. Fare l’autista non significa solo guidare, come invece pensano molti. Bisogna stare attenti al carico e soprattutto a chi viaggia sulla strada insieme a te. Penso che sarebbe utile se tutti i ragazzi che prendono la patente della macchina provassero anche l’esperienza del camion, anche solo con un simulatore, per capire com’è stare alla guida di un mezzo del genere. Gli automobilisti non lo comprendono, non immaginano quanto sia difficile gestire un camion quando qualcuno ti taglia bruscamente la strada, non sanno che non li vediamo se ti sorpassano a destra. Viaggiamo tutti sulla stessa strada ma con ottiche diverse. Bisogna quindi far capire ai ragazzi l’importanza e anche le difficoltà del lavoro che svolgiamo.
Sarebbe un modo anche per avvicinarli al settore?
A me dispiace sempre quando sento dire ai giovani di stare alla larga da questo mestiere, penso invece che andrebbero incentivati. Capisco che ci possano essere esperienze diverse, ma per la mia – seppur breve – esperienza, posso dire di sentirmi gratificata, sia come persona che a livello economico. Però non vorrei essere fraintesa. Mi spiego meglio: non voglio dire che l’autotrasporto è un’oasi felice. Le difficoltà ci sono, ma come in qualunque altro mestiere e in qualunque altro settore. Per esempio, lo stipendio di un OSS si aggira sui 1200/1300 euro al massimo, nonostante si lavori anche la notte, il sabato e la domenica e durante tutte le feste comandate. Non ho mai passato un Natale o un Capodanno con i miei figli. Questo per dire che tutti i lavori richiedono dei sacrifici. Il vero problema di questo settore, a mio avviso, sono i servizi che non offre.
In questi due anni di servizio quali sono i servizi che ti sono mancati?
I punti critici sono sempre gli stessi: aree di sosta troppo piccole e affollate, aree di parcheggio non dotate di servizi adeguati, mancanza di spazi dedicati alle donne che fanno questo mestiere, banalmente come un bagno o una doccia. Servirebbe maggiore riguardo per i lavoratori dell’autotrasporto. Faccio due esempi: uno è il caso della pausa breve da 15 minuti e l’altro della pausa lunga, quella da 45 ore. Se un autista ha solo 15 minuti di pausa ed entra in Autogrill per un caffè, non può perdere tutti e 15 i minuti in fila dietro a decine di turisti e alla fine rischiare di non riuscire neanche a bere o mangiare qualcosa. Noi non siamo in vacanza, siamo lì per lavorare. Basterebbe un minimo di attenzione, una corsia preferenziale per prendere un caffè. Non è chiedere molto. Nel caso della pausa lunga, invece, basterebbe far rispettare le regole intensificando i controlli. Un autista non può passare 45 ore di riposo in cabina, magari posteggiato in una piazzola di sosta in autostrada, ma ha bisogno di un luogo adeguato. Se non può essere casa sua almeno che sia un albergo, pagato dall’azienda. Il riposo nel nostro lavoro è fondamentale perché viaggiamo tutti i giorni sulle strade mettendo a rischio la vita nostra e di tutti gli altri automobilisti. Servirebbe più attenzione al benessere fisico e psicofisico delle persone.
Qual è invece, per te, l’aspetto più bello di questo mestiere?
Questo lavoro è la mia rivincita, sto vivendo la mia seconda gioventù. Ho cresciuto quattro figli da sola, ero sempre impegnata, oggi invece posso finalmente viaggiare e sentirmi libera. Ho dimostrato loro che non c’è età per cambiare e di questo sono molto orgogliosa. Certo, non avrò mai l’esperienza di chi fa questo mestiere da una vita, ma io ci metto il massimo dell’impegno, imparo giorno dopo giorno. Qualcuno criticherà, io rispondo che lo faccio con il cuore.
Non sempre essere figlie d’arte aiuta ad entrare nel mondo dell’autotrasporto a tempo pieno: è il caso di Giulia, che ci racconta la sua storia in questa intervista di “Camion e furgoni mag” a firma di Gabriele Bolognini.
Ragioniera per professione, camionista per vocazione, Giulia prima o poi lascerà la scrivania per mettersi definitivamente alla guida del camion
Giulia Zambolin, 34 anni, di Albiano di Ivrea, durante la settimana lavora presso uno studio di commercialisti, tranne il giovedì che dedica al camion. Discendente da una stirpe di camionisti, Giulia ha il camion nel DNA: “L’impresa a conduzione familiare, fondata da mio nonno nel 1947 è passata successivamente nelle mani dei figli, Franco mio padre e Luigi (68 anni) mio zio. Da sempre si sono occupati di trasporto bovini. Io ho una sorella e mio zio una figlia, maschi non ne sono arrivati, e tra tre femmine io sono l’unica che ereditato la passione per i camion – racconta Giulia – da piccolina, finita la scuola salivo sul camion con papà da giugno a ottobre. Scendevo solo durante la settimana di mare che trascorrevamo tutti insieme. Papà però voleva che studiassi. Non le andava per niente l’idea di farmi fare il suo lavoro da grande. Così mi portavo sul camion, libri e quaderni per i compiti estivi ma non scendevo mai dalla cabina. A 14 anni iniziai a fare le manovre con l’autotreno sul piazzale del mercato di Montichiari. Mi divertivo come una matta.”
Raggiunta la maggiore età, Giulia, oltre a diplomarsi come ragioniera, prende subito tutte le patenti da camion, trovando contemporaneamente lavoro presso uno studio di commercialisti.
“Quando occorreva, davo una mano a papà e allo zio, accompagnandoli, magari nei viaggi in Francia per caricare il bestiame, per sostituirli alla guida quando finivano il tempo. Ogni viaggio era un’avventura diversa. Anni prima di prendere le patenti – ricorda Giulia – in uno di quei viaggi in Francia, mentre tornavamo con il camion carico, in una stradina di montagna, piena di curve e tornanti, un furgoncino ci colpì in piena curva. Un urto frontale terribile dalla parte di papà. Io ricordo che mi misi a piangere disperata. Papà per un momento rimase in uno stato catatonico. Per fortuna non si fece male nessuno.”
“Per questo e per tanti altri motivi papà non ha mai gradito che io facessi la camionista, tuttavia, ho continuato a dare loro una mano almeno un giorno alla settimana. Si andava nella Francia sud-occidentale per caricare le mucche Limousine, che prendono il nome dalla regione dove vengono allevate. È una razza non particolarmente grande che in Italia viene utilizzata come vitello da ristallo, per l’ingrasso e il macello, sia come allevamento, per ottenere femmine fattrici. In pratica negli anni il lavoro è rimasto sempre lo stesso – spiega Giulia – Il trasporto bestiame è un mestiere molto particolare. Devi stare molto attento perché se c’è qualche bestia nervosa può creare problemi e innervosire le altre facendo oscillare il camion o il rimorchio. Dopo averle consegnate bisogna pulire e disinfettare bene camion e rimorchio. In genere i cassoni sono divisi in due piani. Su ogni cassone entrano circa 18 mucche per piano, quindi alle volte viaggi con 60 – 70 capi.”
“Durante i primi anni di guida me ne sono capitate di cotte e di crude. Una volta zio Luigi era appena tornato dalla Francia che venne chiamato subito da un cliente. Non potendo guidare subito per rispettare i turni di riposo mi affidò la guida del camion. Era inverno e mentre ci arrampicavamo sul Monte Bianco ci prese una tempesta di neve. Ero spaventatissima. Ma zio mi incoraggiò dicendomi di rimanere tranquilla e procedere lentamente. Così mentre lui riprese a dormire io mi sono ritrovata a viaggiare in mezzo alla neve alla guida del suo amato Volvo F12. Me la cavai egregiamente. Mentre un’altra volta – ricorda Giulia – eravamo in viaggio con lo Scania 144L 530 di papà. Il camion carico. Forammo una gomma del rimorchio. Fortuna che papà è un omone forzuto grande e grosso. Con calma riuscì a sostituire la ruota con la scorta. Pochi chilometri dopo forammo una gomma della motrice. Ho pensato che se mi fosse capitato quando ero sola, sarebbe stato un vero guaio con il camion carico. Finalmente dopo aver sostituito anche la seconda ruota riprendemmo il viaggio verso casa.”
A sinistra il papà di Giulia, Franco, a destra lo zio Luigi
Ora il papà di Giulia è in pensione da una decina d’anni. Lo Zio Luigi, che che sta per compiere 68 anni, subirà per legge il declassamento della patente e potrà guidare solo la sua motrice DAF: “Alla fine dell’anno zio andrà in pensione e vuole chiudere l’attività. Un vero dolore per me che intendevo portarla fino ai 100 anni – spiega Giulia – Così io continuo a collaborare con dei loro amici che fanno lo stesso lavoro, la Autotrasporti Bollero. Generalmente il giovedì, quando i loro autisti arrivano a Torino con le ore di guida esaurite, io gli do il cambio per consegnare i capi in Piemonte, Lombardia o Veneto. Tutti camion Scania, Volvo o IVECO.”
Circa 13 anni fa Giulia ha conosciuto il suo attuale marito, Francesco, che lavora in uno dei tanti macelli dove lei va a scaricare il bestiame: “Eh già, io sto tanto attenta a non farle soffrire in viaggio povere bestioline che lui me le macella appena arrivano – scherza Giulia – Lo scorso anno ci siamo sposati ma da sei anni abbiamo la nostra meravigliosa bambina, Marta. Lei è il motivo principale per il quale ho scelto di non fare la camionista a tempo pieno. Starò con la mia bimba almeno finché non arriva alle medie. Appena sarò autosufficiente, penso di iniziare a tempo pieno l’attività di camionista. Magari con un camion tutto mio e magari cambiando settore. Chissà, staremo a vedere. Comunque, il mio futuro lavorativo è sul camion di sicuro!”
Donne camioniste, la storia di Iuliana: “Stereotipi da sradicare”
Ha aperto nel 2021 un’azienda di autotrasporti con il marito e ora è componente del consiglio trasporti di Confartigianato Forlì. “Esigo lo stesso rispetto di un uomo”
Forlì, 9 agosto 2023 – La parte più difficile del suo lavoro, dice, è far capire ai clienti che gli autotrasportatori non sono facchini, dunque non sono tenuti, da contratto, a sollevare o spostare carichi gravosi: “è uno dei tanti stereotipi maschilisti ancora da sradicare”, sorride Iuliana Maria Caliman, titolare, assieme al marito Florin, di una ditta di autotrasporti a Forlì e nominata (unica donna) tra i componenti del Consiglio trasporti di Confartigianato Forlì. “Quando lavoro, esigo lo stesso rispetto che si usa nei confronti di un collega uomo, ma non perdo mai la pazienza. Siamo donne, una delle nostre qualità è la gentilezza. Unita sempre alla fermezza”.
Caliman, da quanto tempo si occupa di autotrasporti?
“Mio marito e io siamo in Romagna da più di 10 anni e abbiamo aperto la società nel 2021, in piena pandemia. Siamo in possesso della licenza per il trasporto merci fino a 40 tonnellate: lui guida un autocarro con rimorchio, io un furgone a temperatura controllata, trasporto principalmente alimenti freschi per conto di alberghi, ristoranti e attività commerciali”.
Come mai ha scelto questa professione ‘da uomo’?
“Il settore dei trasporti mi ha sempre appassionata: le sfide mi entusiasmano, cerco di dare il massimo in tutto quello che faccio. Prima di cominciare ho seguito diversi corsi di formazione, eppure, quando ho iniziato a muovermi col furgone, ho capito che avevo ancora, letteralmente, tanta strada da fare. In questo lavoro si impara qualcosa ogni giorno”.
Lei è madre di due figlie di 16 e 20 anni. Parla mai con loro del suo lavoro?
“È stato proprio quando le ragazze sono cresciute che ho deciso di riprendere in mano la mia vita e i progetti professionali messi nel cassetto anni prima. La più grande è venuta a fare le consegne con me qualche volta, la piccola mi aiuta ogni tanto con le fatture. Ma le lascio libere di scegliere cosa vorranno fare da adulte”.
Com’è la sua giornata lavorativa tipo?
“In estate lavoro tutto il giorno, con un’ora di pausa pranzo; in inverno cerco di concentrare le consegne nella mattinata. Mi muovo lungo tutta la Riviera, da Jesolo fino alle Marche”.
Muoversi tutti i giorni nel traffico sarà stressante.
“I fattori di stress, in realtà, sono tanti: oltre al traffico, occorre mantenere il livello di attenzione sempre alto, per evitare di sbagliare le consegne o commettere errori nei documenti di trasporto. L’estate è davvero impegnativa: l’anno scorso ero distrutta”.
Troppe consegne?
“Troppo caldo. Quando abbiamo avviato l’attività non avevo abbastanza budget per permettermi un furgone nuovo e mi sono dovuta accontentare di uno usato, sprovvisto di aria condizionata. È stata dura. Ora le cose vanno meglio, sono in attesa del nuovo mezzo”.
Quali sono i suoi obiettivi per il futuro?
“Vorremmo far crescere l’attività e assumere dei giovani che ci diano una mano”.
Proprio il settore degli autotrasporti lamenta il problema della mancanza di manodopera.
“Credo che oggi i giovani non abbiano bisogno solo di un lavoro per ricevere uno stipendio, ma di essere motivati. È importante che credano in sé stessi e guardino con più fiducia al proprio avvenire”.
Dall’informatica al fuoristrada per poi arrivare alla guida dei camion e nel futuro? Magari una cyber-trucker
Marta, Lola per gli amici, ha 41 anni, ma ne dimostra 20. Brillante, spigliata, ha pure una bella penna con la quale descrive brevi attimi della propria vita da camionista in modo incisivo e sarcastico sui social. Ma soprattutto quello che traspare dai suoi post è una grande passione per tutto quello che fa. Insomma, ci ha incuriosito e l’abbiamo intervistata.
Come nasce questa passione per i camion?
“In realtà non lo so nemmeno io. O meglio, prima di fare questo mestiere ho lavorato nel settore del web digitale insieme ad altri due amici soci per quasi quindici anni. Sono stati anni stupendi, abbiamo creato siti internet, applicazioni e tanto altro ancora ma ad un certo punto quel lavoro non mi dava più soddisfazione. Non riuscivo più ad esprimere la mia creatività. Stava diventando una routine. Così ho deciso di mollare. Proprio in quel periodo stava nascendo in me una gran passione per le auto fuoristrada. Mi affascinava quel mondo di appassionati che ama intervenire personalmente nelle modifiche al mezzo. Partecipare ai raduni. La sfida di percorrere strade impossibili immersi nel fango. Diciamo che l’appetito vien mangiando… volevo spingermi oltre. I camion sarebbero stati la mia prossima meta.”
Dal fuoristrada al camion
“Sta di fatto che nel mese di settembre 2019mi sono iscritta all’autoscuola per prendere la patente C che ho acquisito a gennaio 2020. Il mese successivo è esplosa la pandemia che ha bloccato tutti i corsi e le sessioni d’esame. Siccome quando inizio un percorso, lo devo portare fino in fondo, ho iniziato a studiare da casa come una forsennata e, appena si è allentata la morsa delle chiusure, ad agosto sono riuscita a dare gli esami del CQC e ad ottobre ho concluso il mio percorso con l’ottenimento della CE. A quel punto dovevo cercare lavoro. In vita mia non ho mai chiesto raccomandazioni, però la passione e la voglia di guidare i camion era tanta che andai a trovare mio cugino, che è socio fondatore della Cooperativa Lusia Service partner di Translusia, importante consorzio di autotrasportatori del nord Italia, per chiedergli se mi potevano assumere. Detto, fatto: il 20 febbraio 2021 ho sottoscritto il primo contratto di quattro mesi e sono stata catapultata direttamente sul “bilico.”
“Da allora non sono più scesa! Ho lavorato come frigorista e da qualche mese ho voluto imparare la vasca. Oggi mi sembra incredibile di trovarmi qui a raccontare questa storia e, soprattutto, di fare questo lavoro che amo, con tutti i suoi pro e i suoi contro.”
Sentire il tuo racconto ed il tuo entusiasmo fa riflettere: come mai, secondo te, i giovani non vengono attratti da questo mestiere?
“I vecchi camionisti direbbero per mancanza di passione. Vero, ma le “vecchie guardie” vivono e vedono la realtà secondo la propria prospettiva, com’è giusto che sia. Il che però non costituisce automaticamente una corretta lettura degli scenari attuali. C’è un inevitabile cambiamento in atto. Bisognerebbe spiegare questo alle nuove generazioni di autisti. I nuovi camion sono ricchi di tecnologia. E il trasporto intermodale, spesso citato nei manuali di Scuola Guida, sta diventando realtà, permettendo soluzioni di viaggi più sostenibili. Tutto questo porterà la figura dell’autista come la conosciamo, a sparire, sostituita da una figura più tecnica e sostenuta alla guida dalla tecnologia, in grado quindi di “guidare” un mezzo pesante limitando la fatica fisica delle ore di guida quotidiane.”
“Mi piace anche pensare che la naturale evoluzione di questo mestiere sarà un autista che molto probabilmente non dovrà nemmeno più preoccuparsi di parcheggiare il rimorchio in ribalta perché, una volta programmata l’azione, mezzo e ribalta dialogheranno tra loro realizzando la manovra perfetta. Questi tecno-autisti saranno insomma un po’ come piloti di droni: prepareranno i veicoli e le tratte da un tablet, monitorando seduti sul sedile di guida o a distanza su una poltrona d’ufficio. Sono quasi certa che una professione così “pulita” e comoda, attirerà l’attenzione delle nuove generazioni, più a loro agio con tutto ciò che è virtuale rispetto a ciò che è reale. Quindi, per riprendere la riflessione – continua Lola – il cerchio si chiuderà, secondo gli scenari futuri e non secondo non più attuabili, romantiche concezioni di riqualificazione di un mestiere che sta naturalmente evolvendo. Una volta per far il camionista servivano unicamente la passione per la guida, per i viaggi, per il voler essere autonomi e liberi dalla routine. Insomma, credo che molto probabilmente un giorno la professione diventerà più tecnica… ma onestamente sono contenta di poter vivere questo momento davanti a un volante big size anzichè un monitor!”
Con il decreto Milleproroghe il governo concede un voucher dal valore di 2500 euro per ogni individuo di età compresa tra i 18 e i 35 anni, che intende prendere le patenti C1, C, C1E, CE, D1, D, D1E, DE e CQC. Pensi che sia utile questa iniziativa per attirare i giovani al mestiere di camionista?
“Riguardo all’agevolazione sui corsi per l’ottenimento delle patenti, penso che oggi nessuno acquisterebbe qualcosa che non sia stata pubblicizzata nel modo più accattivante possibile. Intendo dire che i giovani non conoscono quasi nulla di questa professione e quello che sanno, lo hanno imparato da superati cliché cinematografici o folkloristici. I voucher hanno un’anima prettamente commerciale e pertanto acquistano valore se quello a cui servono viene dato valore. E in Italia il mestiere dell’autista di mezzi pesanti non è valorizzato dalle Istituzioni, è sempre più sconosciuto, invisibile, maltrattato. Una professione priva di un valore riconosciuto sia in termini di economia che di status del lavoratore.”
Silvia Martellotta: «Fare l’autista non è solo un lavoro, è uno stile di vita»
Silvia Martellotta ha 52 anni e quattro anni fa, nel 2019, ha deciso di cambiare la sua vita per diventare autista. Una scelta fatta un po’ per necessità, un po’ per vocazione, «ma la passione non basta» tiene a precisare, «per fare questo mestiere bisogna essere disposti a fare molti sacrifici». Lo sa bene Silvia, che è anche mamma di due ragazzi…
Sono le cinque di un pomeriggio di luglio quando Silvia risponde al telefono. La fatica nella sua voce lascia intuire che non si trovi alla guida. «Sto caricando il camion – conferma – tra poco parto». L’ennesimo viaggio che la porterà lontana da casa, in provincia di Livorno, per l’intera settimana. Partenza il lunedì e rientro il venerdì in serata, talvolta il sabato mattina. Silvia Martellotta, 52 anni e “ufficialmente autista” dal 2019 trasporta principalmente ferro, tubi e lamiere dalla Toscana al nord Italia. Questa vita l’ha scelta un po’ per necessità e un po’ per vocazione, ma tiene subito a chiarire che non vuole che passi il messaggio che basta un po’ di passione per fare questo mestiere ma «servono i sacrifici perché fare l’autista non è solo un lavoro, è uno stile di vita». E allora lo chiariamo subito, a scanso di equivoci.
La grinta Silvia l’ha presa tutta dalla mamma, una pioniera dei van camperizzati – oggi ormai un trend – e una delle poche donne a guidare, all’epoca, un mezzo del genere. «Dopo il divorzio da mio padre – ricorda Silvia – per trascorrere dei momenti insieme a me e i miei fratelli ci caricava tutti sul suo van che usava anche per la sua attività come floricoltrice e ci portava in vacanza». È così che nasce la passione di Silvia per i viaggi; quella per la guida, invece, arriva più tardi. «Avevo 23 anni e lavoravo nel campo ippico. La patente del camion serviva per il trasporto dei cavalli perché settimanalmente c’erano trasferte da fare per le gare e così la presi. Certo non posso dire che ero un’autista come lo sono oggi, guidavo quando ce ne era bisogno».
La carriera di Silvia era avviata, in tasca aveva tutti i brevetti professionali, da quello per l’allenamento dei cavalli a quello per il salto a ostali, ma è quando cambia la gestione dell’ippodromo per cui lavora che Silvia capisce che è il momento di cambiare vita. «Decisi di rinnovare le patenti che già avevo conseguito e prendere la E». Le sorprese, però, non sono finite. «Rimasi incinta della mia seconda figlia per cui per alcuni anni dovetti mettere in pausa il mio progetto per dedicarmi a lavori più saltuari, ma che mi permettevano di starle vicina».
La maternità di un’autista, per Silvia come per molte altre donne, è ancora un tasto dolente.
«Quando rimasi incinta la prima volta lavoravo ancora nel campo ippico e grazie all’aiuto del mio team non fu affatto un problema. Mio figlio Davide, che oggi ha 27 anni, salì per la prima volta sul camion insieme a me quando aveva appena una settimana. Fu una trasferta breve, ma un’esperienza bellissima». Le cose vanno diversamente con la nascita della seconda figlia, Vittoria, che oggi ha 18 anni. «Se non hai un aiuto esterno o non ti puoi permettere una baby-sitter non c’è modo di farcela. Così ho messo in pausa l’idea di lavorare a tempo pieno come autista e per diversi anni mi sono arrangiata facendo qualche lavoretto, tra cui anche qualche viaggio ma solo trasferte giornaliere». Nel 2019 la figlia è ormai adolescente e Silvia decide che è arrivato il momento di riprendere quell’idea messa da parte per troppo tempo. «Decisi di cambiare radicalmente la mia vita e iniziare a fare la linea, ma devo ammettere che fu un trauma tanto per me quanto per lei. L’abbiamo vissuta male entrambe, io per l’apprensione, lei per la distanza. Più di una volta le ho detto che se la situazione fosse diventata troppo difficile avrei valutato di cambiare lavoro per lei perché se deve essere deleterio per i figli il gioco non vale la candela». Una crisi familiare superata grazie «alla forza di volontà, soprattutto da parte sua. Io cercai solo di farle capire che con questo nuovo lavoro potevamo stare meglio a livello economico, permetterci cose che prima non si potevano fare. È stato un sacrificio giornaliero da parte di entrambe. Da parte mia ho cercato di supportarla il più possibile nelle sue passioni, ma non basta, essere presenti è un’altra cosa. Fortunatamente sia Vittoria che Davide in mia assenza hanno potuto contare sulla presenza del loro papà, Enzo, sempre attento e premuroso».
L’unica soluzione al problema, per Silvia, «è una revisione dell’articolo 54 del Codice della strada che impedisce di portare altre persone al di fuori dei dipendenti sui mezzi».
«Certo – precisa – andrebbe fatto con cognizione di causa e senso di responsabilità, in sicurezza insomma, ma in questo modo si darebbe la possibilità a genitori e figli di passare del tempo insieme. Tra l’altro non dimentichiamo che un tempo molti arrivavano a fare questo mestiere proprio perché da piccoli avevano viaggiato con i genitori. Io stessa da ragazzina ho viaggiato sul camion di qualche amico di famiglia e furono esperienze che mi aprirono gli occhi su questo mestiere». In altre parole, una soluzione che strizza l’occhio anche al problema della carenza di giovani autisti. «La realtà è diversa dai simulatori a cui oggi siamo abituati, un po’ di esperienza sul campo penso sia solo positiva, così come si fa già all’estero».
Il tema della responsabilità però è spinoso. «Devo ammettere che se il prezzo da pagare per una violazione della norma fosse stato un verbale a mio nome mio e a mie spese, io avrei rischiato; ma siccome il rischio è per l’azienda diventa impossibile trovare un punto di incontro».
Quello della lontananza dalla famiglia cui gli autisti sono spesso costretti non è però l’unico problema da scontare: un altro tasto dolente è quello dei servizi.
«Spesso ci ritroviamo al carico o allo scarico in piazzali gelidi d’inverno e roventi d’estate, senza un posto in cui poter socializzare o riposare perché il più delle volte occorre aspettare davanti al tabellone l’avviso per poter entrare. Tutto questo genera solo ulteriore stress e stanchezza, ma quando si riparte e si va in strada non possiamo permetterci di non essere al 100%. Basterebbe poco, basterebbe che le aziende creassero un piccolo spazio sociale, così lo definirei, all’aperto o al chiuso, in cui gli autisti possano passare le ore di attesa in serenità, bere una bibita, chiacchierare o fare attività fisica, riposarsi insomma. Per non parlare delle aree di sosta dove ci accalchiamo senza servizi adeguati. È un tema di cui si parla molto, ma nonostante questo il problema sussiste. La soluzione l’ho trovata da sola: ho messo sul camion un piccolo gabinetto, di quelli che si usano anche sui camper, da usare in caso di emergenza. La verità è che lo uso regolarmente, perché spesso non ci sono soluzioni alternative o adeguate».
Non manca però anche il rovescio della medaglia.
«Dal momento che c’è carenza di autisti ho trovato subito lavoro, anche se resta il problema dello scarso affiancamento iniziale. Tutto quello che ho imparato lo devo ai miei colleghi che con molta pazienza e gentilezza mi hanno insegnato quello che c’è da sapere. Ho avuto la fortuna di incontrare solo persone che hanno compreso le mie difficoltà e mi hanno aiutata, a loro sono e sarò sempre infinitamente grata. Questo lavoro ti mette ogni giorno di fronte a imprevisti che sono difficili da gestire, ti costringe a prendere consapevolezza dei tuoi limiti e delle tue paure e a cambiare anche le tue abitudini più elementari; ma proprio perché permette di crescere, evolversi e imparare tanto che spesso dà anche grandi soddisfazioni».
Ci resta solo un’ultima curiosità, così chiediamo a Silvia che cosa sia rimasto di quella sua passione per gli animali che per tanto tempo l’ha portata a lavorare con i cavalli. «Non è mai sparita – ci rivela – tanto che più volte per strada mi sono trovata a soccorrere degli animali in difficoltà. Ho salvato due corvi e una tortorella. Quest’ultima l’ho portata con me in piazzale e una volta guarita è rimasta lì, a farci compagnia».
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