Archive for Giugno, 2020

Auguri Agata!!!

E’ passato tanto tempo da quando ho conosciuto Agata. E’ stato al GP truck di Misano Adriatico nel 2001, allora lei era poco più che una ragazzina, minuta ma con una grinta da vera combattente, voleva realizzare il suo sogno di fare la camionista e ci stava riuscendo. Ai tempi guidava uno Scania motrice, ci siamo incontrate di nuovo un giorno di luglio  a Dalmine, questa è una delle foto ricordo più belle che ho.

Da allora sono passati tanti anni e tanti chilometri sotto le ruote dei nostri camion… tante cose sono cambiate, la vita va avanti, ma il camion dal cuore non ce lo toglierà mai nessuno.

Auguri Agata,  eri CB “Bimba” quando ti ho conosciuta, poi sei cresciuta, ti sei sposata (col camion!) hai girato tutta l’Europa col bilico, hai avuto tre splendidi bambini e anche tanti riconoscimenti alla tua “carriera” di lady truck driver, da quando ti intervistavano perchè eri la camionista più giovane d’Italia al Sabo Rosa, hai partecipato a tante iniziative del nostro gruppo, sei sempre stata una di noi!

Il mio regalo per te oggi sono queste fotografie – in ordine sparso – degli anni passati, quando ci si trovava ai raduni in compagnia di amici e colleghe, per ricordare i giorni felici e per risvegliare, spero, dei bei ricordi!

(Visto – luglio 2003)

Un abbraccio “Bimba” e buon compleanno!

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Intervista a Chiara

Da “Uomini e trasporti” una collega si racconta. Il link dell’intervista completa è https://www.uominietrasporti.it/chiara-belleggia-donna-al-volante-pregiudizio-costante/

Chiara Belleggia. «Donna al volante? Pregiudizio costante»

Ha trent’anni e da dodici guida camion. Lo ha deciso perché li adora, perché era una professione che ha visto fare in famiglia. Ma poi, sulla strada, ha trovato una modalità tutto femminile di lavorare. Una modalità che colpisce: colleghi, poliziotti, insegnanti dei figli e chi in generale è convinto che questo sia un lavoro da coniugare soltanto al maschile.

Di Deborah Appolloni

Tanta passione e un pizzico di follia. Mettersi in gioco, salire sul camion a 19 anni, non abbandonare il volante fino all’ottavo mese di gravidanza, tornare in cabina con una figlioletta di tre mesi addormentata nell’ovetto agganciato sul sedile accanto e lasciare la polizia stradale a bocca aperta quando la portiera della motrice si apre e a scendere è una ragazza con il pancione, dall’aspetto gentile, sorriso contagioso e costituzione esile. Chiara, che vive a una decina di chilometri da Roma, si trova spesso a demolire qualche tabù. Capita, infatti, che la maestra dell’asilo sia più portata a pensare che suo figlio abbia scambiato i ruoli genitoriali, anziché immaginare la possibilità che una donna possa fare la camionista. Anche i poliziotti, durante un normale controllo su strada, la guardano come un’aliena mentre esce dalla cabina. Ma Chiara ha fiducia: «Scenderò dal camion solo per la famiglia o per amore». Per ora non è stato necessario: il suo compagno l’aiuta con i due figli (ancora piccoli, una bimba di 7 anni e un maschietto di 4), lei si sporca le mani, lavora duro, porta gli amori con sé tatuati sulla sua pelle e guarda al suo mito: la Sirenetta Antonella che da anni sfreccia su un camion variopinto e bellissimo.

«Ho avuto la fortuna di nascere in una famiglia senza pregiudizi», confessa Chiara Belleggia, 30 anni, da 12 camionista: prima per la ditta di famiglia, poi come dipendente.

Come hai iniziato a lavorare un camion?
L’idea di fare questo lavoro è venuta da mio nonno materno che era un camionista. Anche mio papà ha una ditta di autotrasporto e quindi la vita mi ha portato ad appassionarmi.

Da bambina immaginavi di fare la camionista?
No. Quando ero piccola volevo fare il pompiere e guidare le autobotti. Ci ho provato, ma a causa di alcuni valori sballati nelle analisi, la cosa non è andata in porto.

Ti ricordi la prima volta che sei salita su un camion?
Forse a un anno.

Era un mezzo della ditta di tuo padre?
Sì, mio padre ha aperto la ditta nel 1970 e trasportava prima alimentari e poi materiali per l’edilizia. Io sui camion ci sono cresciuta. Il caso ha voluto che sia rimasta incinta a 22 anni della mia prima figlia e così ho dovuto rinunciare a un lavoro in Svizzera come perito meccanico progettista, che è quello per cui ho studiato. Quindi, tra la mancata partenza e l’arrivo di questa bimba, visto che già mi divertivo ad andare in giro con i mezzi di mio padre perché avevo le patenti professionali, ho pensato di fare questo lavoro. Ho sempre avuto una grande passione per i camion. Spesso dico che scenderei dal camion solo per la famiglia o per amore. Non si resta fuori casa, non si affronta la pioggia, la neve e i guasti se non si è mossi da un grande sentimento.

Hai partorito prima di iniziare?
No, ho iniziato tre anni prima di rimanere incinta. Durante la gravidanza sono stata seguita all’ospedale Fatebenefratelli dell’Isola Tiberina a Roma e, siccome avevamo un cantiere non molto lontano al Monte di Pietà, facevo coincidere i viaggi con le visite di controllo: arrivavo al cantiere mentre gli operai scaricavano, mi facevo una doccia, mi cambiavo e andavo a fare un’ecografia o un’altra visita. Per ottimizzare i tempi…

Fino a quanti mesi di gravidanza hai lavorato?
Fino all’ottavo inoltrato. Mia figlia Mara è nata il 18 gennaio e ho lavorato fino al 7 dicembre. Quando ero incinta del secondo figlio, Massimiliano, ho smesso un po’ prima a causa delle dimensioni della pancia. Comunque, facevo trasporti locali: la sera tornavo sempre a casa.

Com’è stata la gestione dei bambini quando erano molto piccoli?
Fortunatamente ho ripreso a lavorare subito perché erano tranquilli e mi facevano dormire. Ho avuto un grande aiuto da parte di mia sorella e di mia madre. Qualche volta Mara la portavo con me sull’ovetto nel camion: lei dormiva e io facevo le consegne. Comunque, anche adesso che i miei due figli sono abbastanza grandi, se non avessi l’aiuto del mio compagno, che di mestiere è meccanico, non potrei fare questo mestiere.

Com’è la vostra routine giornaliera?
Lui accompagna i bambini a scuola: io parto spesso di notte perché attualmente faccio trasporto alimentari. A volte, vado via alle 11 da casa e torno due giorni dopo. Quando rientro sto un giorno con loro.

Dormi in cabina? Come ti sei organizzata?
Sì, per me è una casa. Ti organizzi i tuoi spazi vitali. Questo lavoro aiuta molto a capire quali sono le cose essenziali e come eliminare il superfluo: si vive in uno spazio limitato, alle volte ti capita di starci in coppia come quando si fanno viaggi molto lunghi.

Quando ti fermi nelle aree di sosta sei l’unica donna?No, capita anche di incontrarne altre. Vengono soprattutto da Austria e Olanda. Mi è capitato di fermarmi all’autogrill Umbria e di incontrare la “Sirenetta”, che però stava dormendo. Lei è una persona che mi piacerebbe conoscere. Mi sono innamorata di lei la prima volta che l’ho incontrata a Misano, l’anno in cui ero incinta di Mara, ma non sono riuscita a parlarci.

Come sono i rapporti con i colleghi maschi? C’è chi ti guarda come un alieno, chi come una collega e chi con lo sguardo dice “vattene a casa a fare la calzetta”, come si dice a Roma.

Hai subìto delle avances? I “provoloni” sono dappertutto, ma l’importante è dare a ognuno il proprio spazio. È così anche se fai la commessa.

È grande la ditta in cui lavori?
Ha una decina di mezzi.

Come si è posta la ditta che ti ha assunto? Immagino che su dieci camion tu sia l’unica donna…
No, eravamo tre. Poi una ha cambiato ditta e siamo rimaste in due. C’è un’altra ragazza che sta in ufficio, è un jolly: ha la patente e all’occorrenza monta sul camion. C’è sempre stato molto rispetto e i primi tempi si preoccupavano molto per me. Mi hanno trattato come una figlia, anche perché ero tra le più giovani.

Come vengono affrontate le necessità legate al ménage familiare?
Fortunatamente i miei figli si ammalano pochissimo. Comunque, il datore di lavoro ha capito che ho due figli e che per me sono la priorità.

E i bambini cosa dicono del tuo lavoro?
Dipende da come stanno emotivamente. Visto che sono separata, cerco sempre di fare il locale e di restare in zona nei giorni che sono con me. Sono anche molto orgogliosi del mio lavoro. Mara ha una maglietta con la scritta «Non importa quanto sia figa tua mamma, la mia è una camionista». Capitano anche cose strane. Per esempio, l’anno scorso quando Massimiliano ha iniziato l’asilo, parlando con le maestre, disse: «Mia madre porta il camioncione». La maestra gli rispose che forse intendeva dire «il papà». E lui: «No no, papà lavora con l’immondizia, mamma invece porta il camioncione». All’uscita della scuola la maestra mi ha fermato chiedendomi se il bambino confondesse me con il papà. Quando le ho detto che sono io a portare il camion, mi ha guardato meravigliata…

Ai tuoi bimbi piacciono i camion?
A Massimiliano molto, Mara è più «sì mi piacciono, ma voglio le bambole, la borsetta». Massimiliano dice sempre che da grande vuole fare il mio lavoro.

Che musica ascolti mentre viaggi e a cosa pensi?
Mentre guido i pensieri vanno alla famiglia: ai figli, al compagno che mi aspetta, a quando sarò a casa e mi godrò il loro abbraccio. Per la musica un po’ di tutto: mi piace Coez, i Boomdabash. Specialmente la notte, quando ascolto queste canzoni che mi fanno battere il cuore, penso a casa e allora mando un messaggio vocale con la canzone come dedica. È un modo per accorciare le distanze perché i chilometri sono tanti e la notte porta consiglio, ma anche pensieri.

Passi molto tempo da sola…
Sì, tanto. Se non riesci a stare da sola, vai fuori di testa. Magari ci sono colleghi che fanno altre tratte e ti tengono compagnia al telefono. Ma una chiamata dura al massimo 45 minuti. Nei momenti di silenzio se non sai stare da solo, è dura: allora ci sei tu, la luna – la grande compagna di viaggio – e la strada.

Ci pensi mai a quanto può essere sicura la tua strada?
Ci penso sempre. La prima tratta di linea l’ho fatta verso Odolo (BS) e al ritorno, all’altezza di Modena Sud, abbiamo visto un incidente: un camion che è passato sopra un altro autista che si era fermato a fare pipì. L’immagine di quel collega – anche se non lo conoscevo – ce l’ho sempre in mente. Era un viaggio spensierato, il primo viaggio di linea, ero carica. E vedere che tutto cambia con poco mi ha fatto pensare.

Lo senti lo stress degli orari, della consegna?
Fortunatamente no: non so se sono io brava a gestire i miei tempi o se è stato bravo chi mi ha insegnato a gestirli. Quindi, tranne una volta che non mi sentivo bene e ho fatto ritardo, sono sempre arrivata puntuale.

Ti capita di aspettare tanto al carico e allo scarico?
A volte sì… negli scarichi. La cosa che a noi autisti manca di più è il sonno. Quindi, quando posso mando un messaggio o faccio una telefonata a casa e poi dormo. Se mi sveglio prima che finiscano di scaricare prendo la pezzetta e pulisco la cabina.

Cosa mangi in viaggio?
Dipende da dove vado. Se sono viaggi di routine, conosco una trattoria buona o chiedo consigli ai colleghi con cui magari mi metto d’accordo per mangiare insieme. In Toscana, per esempio, polpette e tanta verdura. Se vado in posti nuovi dove non conosco mi porto sempre qualcosa: frutta, carote lesse – che adoro – e tante patatine, come se piovessero.

Le donne in questo settore sono pochissime e mancano gli autisti. Secondo te quali sono le cose che potrebbero invogliare le donne a fare le camioniste?
La prima cosa è che devi avere passione e follia. Se sei una persona abituata a stare a casa, allora non è questo il mestiere che fa al caso tuo. Se invece sei una donna con una certa luce negli occhi, se senti il bisogno di viaggiare, di stare “on the road”, allora sì. Quando sali su un mezzo del genere può succedere di tutto. Se sei una donna che si vuole mettere in gioco, questo è un bel gioco. Ho amiche che mi chiedono di accompagnarmi e quando le porto a bordo a loro piace, la sentono come una cosa diversa.

Magari parlandone, qualcosa si potrebbe muovere…
Sì. Tante volte mi dicono che siamo come gli autisti dell’Atac (azienda del trasporto pubblico romano, ndr), ma non è vero. L’autista dell’Atac se si rompe un pezzo, chiama in officina e aspetta il soccorso. Invece noi ci mettiamo lì, ci sporchiamo le mani e proviamo a risolvere. Essere autisti è anche questo. Ed ecco perché una donna che sceglie di fare questo lavoro deve essere pronta a mettersi in discussione. Oltre a fare la spesa, pulire casa e fare figli sappiamo fare altro. Una volta, sono rimasta ferma con il camion per una valvolina da due euro: ho provato e riprovato a sistemarla. Alla fine, all’una di notte, mi sono fermata, ho dormito e la mattina dopo ho comprato il pezzo di ricambio. È un mestiere che, ripeto, devi provare. Ho avuto la fortuna di nascere in una famiglia senza pregiudizi. Mio nonno, che era del 1930, mi ha sempre invogliato a guidare. Mio nonno sta qui (indicando i tatuaggi) e qui ho Massimiliano: «ti porto nel cuore perché per mano non posso». Questo è di Mara e questo è di mia nipote. Invece questo è lo schema delle marce del Renault Magnum, il primo mezzo che ho guidato da dipendente. Qui ci sono degli amici, qui altri nonni. La mia pelle è per la mia famiglia. È il mio modo per portarla con me.

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La storia di Laura

Su “Uomini e camion” ho trovato un’altra testimonianza da parte di una collega che se da una parte aveva realizzato il suo sogno di diventare una camionista, dall’altra ha dovuto suo malgrado mollare. Questo il link dell’articolo  https://www.uominietrasporti.it/laura-mihaes-dalla-passione-alla-delusione/

Laura Mihaes: «Dalla passione alla delusione»

Coltiva da bambina, guardando il padre autista, il sogno di guidare camion. Ma la vita la porta altrove. Otto anni dopo, con un matrimonio alle spalle e un figlio da crescere, Laura prende le patenti e diventa camionista. Agli inizi di maggio un po’ gli insulti di colleghi, un po’ il taglio della retribuzione la costringono a fare un passo indietro. Sperando sia momentaneo

Premessa: siamo convinti che tramite la presenza femminile si potrebbe fornire una soluzione alla carenza di autisti. Ma siamo pure convinti che, affinché ciò avvenga, è necessario rimuovere una diffusa cultura maschilista, improntata sulle discriminazioni di genere. La storia di Laura Mihaes dimostra entrambe le cose: perché questa donna, giunta in Italia nove anni fa dalla Romania, è riuscita in effetti a diventare autista di camion, come aveva sempre sognato. Ma poi ha dovuto fare un passo indietro determinato anche dai giudizi di colleghi dalle vedute tutt’altro che larghe.

Ma partiamo dal principio, quando Laura inizia a cullare il sogno di diventare camionista osservando il padre. «La mia passione – ci spiega – nasce da bambina. Mi piaceva salire sul camion di papà. Quando finivo la scuola volevo sempre andare in giro con lui».
Maggiore di sei figli, Laura ricorda quell’epoca con gli occhi spalancati: «Papà guidava un vecchio Saviem con cui trasportava materiali per l’edilizia. Ricordo quando, nel cortile di casa, me lo fece guidare per la prima volta: mi dovevo aggrappare con tutte e due le mani sulla leva del cambio per riuscire a cambiare marcia».

Gli anni passano, Laura si diploma in ragioneria e in casa pretendono che orienti il suo sguardo verso qualcosa di diverso rispetto al camion. «Papà non voleva che facessi l’autista: esigeva mi cercassi un altro lavoro perché, secondo lui, non era per me una vita possibile. Così litigammo e andai via di casa per raggiungere i miei zii in Italia. Avevo 19 anni».

Una volta a Roma Laura trova prima un impiego come barista e poi come aiuto pasticcera. In questa fase conosce l’uomo che diventerà suo marito, un pizzaiolo di origini rumene: «Quando ho compiuto 21 anni ci siamo sposati. Sono rimasta incinta e ho avuto il mio bambino. Le cose fra me e mio marito, purtroppo, non funzionavano. Uno dei problemi era proprio il mio desiderio di fare la camionista: non voleva assolutamente. Alla fine ci lasciammo».

Con i soldi messi da parte Laura si iscrive a scuola guida e prende le tanto desiderate patenti. «Mi misi a cercare lavoro e paradossalmente, mentre qualcuno diceva che ero senza esperienza o che il lavoro non era adatto a una ragazza, altri erano disposti a lasciarmi un bilico tra le mani senza neanche una spiegazione! Poi trovai una ditta seria impegnata nel trasporto frigo. Mi affidarono a un autista anziano che mi accompagnò per i primi viaggi spiegandomi tutto. Dopo tre mesi ho iniziato a fare la linea da sola. Caricavo frutta ai mercati generali di Roma e la distribuivo al nord Italia. Mi piaceva molto». Rimaneva il problema di conciliare il lavoro con gli impegni familiari. Per darle una mano arriva la mamma dalla Romania. Laura le è riconoscente: «Mio figlio oggi ha sette anni e, grazie a sua nonna, sono riuscita a iniziare a lavorare sui camion. Poi, scoppiata la pandemia, ho trovato una ditta attiva nella distribuzione regionale e così, per rientrare a casa tutte le sere, ho deciso di cambiare». All’inizio Laura è contenta: rifornisce i supermercati di Roma e provincia di provviste alimentari e prova orgoglio nel fare qualcosa di utile per le persone.

Poi a metà maggio iniziano i problemi. Inizialmente si manifestano sotto forma di autisti ignoranti. «C’erano alcuni colleghi – rumeni (ahimé) anche loro – che mi tormentavano. Non facevano altro che dirmi che le donne devono stare a casa, a cucinare e a rammendare calzini. Oppure che in momenti di crisi non è giusto rubare lavoro agli uomini. Una collezione di luoghi comuni insopportabili, condita con insulti e parolacce». Poi, la doccia fredda: l’azienda le propone di portare la retribuzione a 7,00 euro l’ora. «Lo so, il momento è difficile, ma con quella cifra – dice Laura – vado a fare la cameriera: almeno non mi sveglio alle due di notte per andare a caricare!». Così, demotivata da questo uno-due, Laura rassegna le dimissioni: «È stata una repulsione: spero in futuro di trovare un’altra ditta con cui tornare a fare l’autista. Adesso è complicato». È anche la nostra speranza e, siamo sicuri, presto diventerà realtà.

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