Cambiare vita e realizzare i propri sogni, quelli abbandonati in fondo ad un cassetto, è quello che ha fatto Palmira e che ci racconta in questa bella intervista di Elisa Bianchi, come sempre dal blog “Anche io volevo il camion” di “Uomini e Trasporti”.
Palmira Mura, «Sono un’autista con il cuore da OSS»
A 50 anni cambia radicalmente la sua vita: dopo anni passati in corsia come Operatrice Socio-Sanitaria e aver lavorato in reparto Covid nei mesi più duri della pandemia, Palmira Mura ha scelto di ripescare un sogno lasciato nel cassetto. Prende le patenti, saluta figli e nipoti e parte per la linea. In cabina oggi vive la sua “seconda gioventù”
«Sono un’autista con il cuore da Operatrice Socio Sanitaria, il lavoro che ho svolto per una vita prima di salire in cabina». Si presenta così Palmira Mura, 52 anni “portati con orgoglio” e originaria della Provincia di Oristano, ma trapiantata nel Nord Italia fin da piccolissima.
La raggiungiamo al telefono mentre è impegnata al volante. Si trova sull’A1, direzione Varese. Davanti a lei circa 500 km di strada da percorrere. «Sto trasportando del vino in questo momento – ci dice – ma è un carico sporadico. Normalmente porto materie prime, soprattutto plastica».
Dall’agosto 2021 Palmira lavora per un padroncino di Piacenza, Piccoli Riccardo. «È un’azienda piccola – spiega Palmira – ma con la quale sogno di andare in pensione perché qui sento di aver trovato finalmente il mio posto». Palmira è l’unica donna della flotta ed è anche l’unica ad aver scelto di cambiare vita a 50 anni. Una scelta radicale che arriva dopo uno dei periodi più bui degli ultimi anni, non solo per Palmira ma per tutti noi. «Come OSS ho lavorato nei reparti Covid per tutto il periodo della pandemia. È stato doloroso, ho vissuto la solitudine e la sofferenza delle persone, anziani che morivano senza l’affetto dei propri cari, senza la possibilità di dare loro una carezza. Ho dato tutta me stessa al mio lavoro in quei mesi e una volta superato il peggio mi sono resa conto che avevo finito le energie, non avevo più nulla da dare, dovevo cambiare. Siamo solo di passaggio in questa vita quindi mi sono detta: perché no, perché non riprendere in mano il sogno dell’autotrasporto lasciato nel cassetto tanti anni fa».
Perché l’avevi accantonato?
Furono i miei genitori a mettermi in testa l’idea di prendere le patenti. Mio papà aveva la C da quando aveva fatto il miliare e mia mamma negli anni ’80 guidava un Daily telonato, faceva le consegne a Milano e dintorni. Non mi sarebbe dispiaciuto seguire i progetti che avevano per me, però le cose andarono diversamente: quando avevo 19 anni nacque la mia prima figlia, Mariangela. Seguirono poi altri tre figli: Andrea Francesca, Matteo e Martina. Così accantonai l’idea di mettermi al volante e presi l’attestato da OSS. A dire il vero nel 2015 provai a tornare sui miei passi. Dopo la separazione da mio marito feci l’orale della C e lo superai, ma al momento di iniziare le guide i soldi scarseggiavano e così lasciai perdere un’altra volta.
Il momento giusto è arrivato nel 2021. Come è andata?
All’inizio lavoravo di giorno e la sera andavo in scuola guida, seguivo delle lezioni private. Fortunatamente ho trovato supporto da parte di tutti, sia dei mei figli – soprattutto le ragazze – ormai già grandi e che mi spronavano a inseguire il mio desiderio, sia dell’Azienda sanitaria per la quale lavoravo. Mi sono licenziata solo prima di conseguire le ultime patenti, investendo tutti i soldi della liquidazione per poterle completare, perché le cifre si sa, sono importanti.
Un salto nel buio…
Sì, ma tramite mio fratello, anche lui autista, sono riuscita ad avere un colloquio con quella che oggi è l’azienda per cui lavoro. Nessuno ci avrebbe scommesso perché ero una donna di ormai 51 anni senza esperienza, eppure credo che il mio capo abbia visto in me la volontà di metterci il massimo dell’impegno. Da allora ho fatto tanti errori e ho versato tante lacrime, lo ammetto, ma oggi posso dire che la donna che sono è il risultato delle difficoltà che ho saputo affrontare. Non da sola, naturalmente. Devo tantissimo all’aiuto di colleghi e amici con più esperienza di me.
Come è la tua vita oggi?
Non mi annoio mai. Faccio la linea, una media di due scarichi e un ricarico al giorno. La mia casa per tutta la settimana è la cabina, mentre nel weekend torno a essere la mamma e la nonna di sempre.
Il rapporto con i tuoi figli è cambiato?
Questo cambio di vita è arrivato quando i miei figli erano già grandi; quindi, in realtà, il rapporto con loro si è rafforzato perché se prima ero spesso stanca e nervosa, oggi quando rientro abbiamo sempre qualcosa da raccontarci. I miei quattro nipoti, Gaia, Eleonora, Eduardo e Greta, che vanno dai 7 anni ai 9 mesi, posso godermeli nel weekend, anche se mi piacerebbe poterli coinvolgere, fargli vedere da vicino cosa faccio, come funziona il mio lavoro. Fare l’autista non significa solo guidare, come invece pensano molti. Bisogna stare attenti al carico e soprattutto a chi viaggia sulla strada insieme a te. Penso che sarebbe utile se tutti i ragazzi che prendono la patente della macchina provassero anche l’esperienza del camion, anche solo con un simulatore, per capire com’è stare alla guida di un mezzo del genere. Gli automobilisti non lo comprendono, non immaginano quanto sia difficile gestire un camion quando qualcuno ti taglia bruscamente la strada, non sanno che non li vediamo se ti sorpassano a destra. Viaggiamo tutti sulla stessa strada ma con ottiche diverse. Bisogna quindi far capire ai ragazzi l’importanza e anche le difficoltà del lavoro che svolgiamo.
Sarebbe un modo anche per avvicinarli al settore?
A me dispiace sempre quando sento dire ai giovani di stare alla larga da questo mestiere, penso invece che andrebbero incentivati. Capisco che ci possano essere esperienze diverse, ma per la mia – seppur breve – esperienza, posso dire di sentirmi gratificata, sia come persona che a livello economico. Però non vorrei essere fraintesa. Mi spiego meglio: non voglio dire che l’autotrasporto è un’oasi felice. Le difficoltà ci sono, ma come in qualunque altro mestiere e in qualunque altro settore. Per esempio, lo stipendio di un OSS si aggira sui 1200/1300 euro al massimo, nonostante si lavori anche la notte, il sabato e la domenica e durante tutte le feste comandate. Non ho mai passato un Natale o un Capodanno con i miei figli. Questo per dire che tutti i lavori richiedono dei sacrifici. Il vero problema di questo settore, a mio avviso, sono i servizi che non offre.
In questi due anni di servizio quali sono i servizi che ti sono mancati?
I punti critici sono sempre gli stessi: aree di sosta troppo piccole e affollate, aree di parcheggio non dotate di servizi adeguati, mancanza di spazi dedicati alle donne che fanno questo mestiere, banalmente come un bagno o una doccia. Servirebbe maggiore riguardo per i lavoratori dell’autotrasporto. Faccio due esempi: uno è il caso della pausa breve da 15 minuti e l’altro della pausa lunga, quella da 45 ore. Se un autista ha solo 15 minuti di pausa ed entra in Autogrill per un caffè, non può perdere tutti e 15 i minuti in fila dietro a decine di turisti e alla fine rischiare di non riuscire neanche a bere o mangiare qualcosa. Noi non siamo in vacanza, siamo lì per lavorare. Basterebbe un minimo di attenzione, una corsia preferenziale per prendere un caffè. Non è chiedere molto. Nel caso della pausa lunga, invece, basterebbe far rispettare le regole intensificando i controlli. Un autista non può passare 45 ore di riposo in cabina, magari posteggiato in una piazzola di sosta in autostrada, ma ha bisogno di un luogo adeguato. Se non può essere casa sua almeno che sia un albergo, pagato dall’azienda. Il riposo nel nostro lavoro è fondamentale perché viaggiamo tutti i giorni sulle strade mettendo a rischio la vita nostra e di tutti gli altri automobilisti. Servirebbe più attenzione al benessere fisico e psicofisico delle persone.
Qual è invece, per te, l’aspetto più bello di questo mestiere?
Questo lavoro è la mia rivincita, sto vivendo la mia seconda gioventù. Ho cresciuto quattro figli da sola, ero sempre impegnata, oggi invece posso finalmente viaggiare e sentirmi libera. Ho dimostrato loro che non c’è età per cambiare e di questo sono molto orgogliosa. Certo, non avrò mai l’esperienza di chi fa questo mestiere da una vita, ma io ci metto il massimo dell’impegno, imparo giorno dopo giorno. Qualcuno criticherà, io rispondo che lo faccio con il cuore.
Non sempre essere figlie d’arte aiuta ad entrare nel mondo dell’autotrasporto a tempo pieno: è il caso di Giulia, che ci racconta la sua storia in questa intervista di “Camion e furgoni mag” a firma di Gabriele Bolognini.
Ragioniera per professione, camionista per vocazione, Giulia prima o poi lascerà la scrivania per mettersi definitivamente alla guida del camion
Giulia Zambolin, 34 anni, di Albiano di Ivrea, durante la settimana lavora presso uno studio di commercialisti, tranne il giovedì che dedica al camion. Discendente da una stirpe di camionisti, Giulia ha il camion nel DNA: “L’impresa a conduzione familiare, fondata da mio nonno nel 1947 è passata successivamente nelle mani dei figli, Franco mio padre e Luigi (68 anni) mio zio. Da sempre si sono occupati di trasporto bovini. Io ho una sorella e mio zio una figlia, maschi non ne sono arrivati, e tra tre femmine io sono l’unica che ereditato la passione per i camion – racconta Giulia – da piccolina, finita la scuola salivo sul camion con papà da giugno a ottobre. Scendevo solo durante la settimana di mare che trascorrevamo tutti insieme. Papà però voleva che studiassi. Non le andava per niente l’idea di farmi fare il suo lavoro da grande. Così mi portavo sul camion, libri e quaderni per i compiti estivi ma non scendevo mai dalla cabina. A 14 anni iniziai a fare le manovre con l’autotreno sul piazzale del mercato di Montichiari. Mi divertivo come una matta.”
Raggiunta la maggiore età, Giulia, oltre a diplomarsi come ragioniera, prende subito tutte le patenti da camion, trovando contemporaneamente lavoro presso uno studio di commercialisti.
“Quando occorreva, davo una mano a papà e allo zio, accompagnandoli, magari nei viaggi in Francia per caricare il bestiame, per sostituirli alla guida quando finivano il tempo. Ogni viaggio era un’avventura diversa. Anni prima di prendere le patenti – ricorda Giulia – in uno di quei viaggi in Francia, mentre tornavamo con il camion carico, in una stradina di montagna, piena di curve e tornanti, un furgoncino ci colpì in piena curva. Un urto frontale terribile dalla parte di papà. Io ricordo che mi misi a piangere disperata. Papà per un momento rimase in uno stato catatonico. Per fortuna non si fece male nessuno.”
“Per questo e per tanti altri motivi papà non ha mai gradito che io facessi la camionista, tuttavia, ho continuato a dare loro una mano almeno un giorno alla settimana. Si andava nella Francia sud-occidentale per caricare le mucche Limousine, che prendono il nome dalla regione dove vengono allevate. È una razza non particolarmente grande che in Italia viene utilizzata come vitello da ristallo, per l’ingrasso e il macello, sia come allevamento, per ottenere femmine fattrici. In pratica negli anni il lavoro è rimasto sempre lo stesso – spiega Giulia – Il trasporto bestiame è un mestiere molto particolare. Devi stare molto attento perché se c’è qualche bestia nervosa può creare problemi e innervosire le altre facendo oscillare il camion o il rimorchio. Dopo averle consegnate bisogna pulire e disinfettare bene camion e rimorchio. In genere i cassoni sono divisi in due piani. Su ogni cassone entrano circa 18 mucche per piano, quindi alle volte viaggi con 60 – 70 capi.”
“Durante i primi anni di guida me ne sono capitate di cotte e di crude. Una volta zio Luigi era appena tornato dalla Francia che venne chiamato subito da un cliente. Non potendo guidare subito per rispettare i turni di riposo mi affidò la guida del camion. Era inverno e mentre ci arrampicavamo sul Monte Bianco ci prese una tempesta di neve. Ero spaventatissima. Ma zio mi incoraggiò dicendomi di rimanere tranquilla e procedere lentamente. Così mentre lui riprese a dormire io mi sono ritrovata a viaggiare in mezzo alla neve alla guida del suo amato Volvo F12. Me la cavai egregiamente. Mentre un’altra volta – ricorda Giulia – eravamo in viaggio con lo Scania 144L 530 di papà. Il camion carico. Forammo una gomma del rimorchio. Fortuna che papà è un omone forzuto grande e grosso. Con calma riuscì a sostituire la ruota con la scorta. Pochi chilometri dopo forammo una gomma della motrice. Ho pensato che se mi fosse capitato quando ero sola, sarebbe stato un vero guaio con il camion carico. Finalmente dopo aver sostituito anche la seconda ruota riprendemmo il viaggio verso casa.”
A sinistra il papà di Giulia, Franco, a destra lo zio Luigi
Ora il papà di Giulia è in pensione da una decina d’anni. Lo Zio Luigi, che che sta per compiere 68 anni, subirà per legge il declassamento della patente e potrà guidare solo la sua motrice DAF: “Alla fine dell’anno zio andrà in pensione e vuole chiudere l’attività. Un vero dolore per me che intendevo portarla fino ai 100 anni – spiega Giulia – Così io continuo a collaborare con dei loro amici che fanno lo stesso lavoro, la Autotrasporti Bollero. Generalmente il giovedì, quando i loro autisti arrivano a Torino con le ore di guida esaurite, io gli do il cambio per consegnare i capi in Piemonte, Lombardia o Veneto. Tutti camion Scania, Volvo o IVECO.”
Circa 13 anni fa Giulia ha conosciuto il suo attuale marito, Francesco, che lavora in uno dei tanti macelli dove lei va a scaricare il bestiame: “Eh già, io sto tanto attenta a non farle soffrire in viaggio povere bestioline che lui me le macella appena arrivano – scherza Giulia – Lo scorso anno ci siamo sposati ma da sei anni abbiamo la nostra meravigliosa bambina, Marta. Lei è il motivo principale per il quale ho scelto di non fare la camionista a tempo pieno. Starò con la mia bimba almeno finché non arriva alle medie. Appena sarò autosufficiente, penso di iniziare a tempo pieno l’attività di camionista. Magari con un camion tutto mio e magari cambiando settore. Chissà, staremo a vedere. Comunque, il mio futuro lavorativo è sul camion di sicuro!”
Donne camioniste, la storia di Iuliana: “Stereotipi da sradicare”
Ha aperto nel 2021 un’azienda di autotrasporti con il marito e ora è componente del consiglio trasporti di Confartigianato Forlì. “Esigo lo stesso rispetto di un uomo”
Forlì, 9 agosto 2023 – La parte più difficile del suo lavoro, dice, è far capire ai clienti che gli autotrasportatori non sono facchini, dunque non sono tenuti, da contratto, a sollevare o spostare carichi gravosi: “è uno dei tanti stereotipi maschilisti ancora da sradicare”, sorride Iuliana Maria Caliman, titolare, assieme al marito Florin, di una ditta di autotrasporti a Forlì e nominata (unica donna) tra i componenti del Consiglio trasporti di Confartigianato Forlì. “Quando lavoro, esigo lo stesso rispetto che si usa nei confronti di un collega uomo, ma non perdo mai la pazienza. Siamo donne, una delle nostre qualità è la gentilezza. Unita sempre alla fermezza”.
Caliman, da quanto tempo si occupa di autotrasporti?
“Mio marito e io siamo in Romagna da più di 10 anni e abbiamo aperto la società nel 2021, in piena pandemia. Siamo in possesso della licenza per il trasporto merci fino a 40 tonnellate: lui guida un autocarro con rimorchio, io un furgone a temperatura controllata, trasporto principalmente alimenti freschi per conto di alberghi, ristoranti e attività commerciali”.
Come mai ha scelto questa professione ‘da uomo’?
“Il settore dei trasporti mi ha sempre appassionata: le sfide mi entusiasmano, cerco di dare il massimo in tutto quello che faccio. Prima di cominciare ho seguito diversi corsi di formazione, eppure, quando ho iniziato a muovermi col furgone, ho capito che avevo ancora, letteralmente, tanta strada da fare. In questo lavoro si impara qualcosa ogni giorno”.
Lei è madre di due figlie di 16 e 20 anni. Parla mai con loro del suo lavoro?
“È stato proprio quando le ragazze sono cresciute che ho deciso di riprendere in mano la mia vita e i progetti professionali messi nel cassetto anni prima. La più grande è venuta a fare le consegne con me qualche volta, la piccola mi aiuta ogni tanto con le fatture. Ma le lascio libere di scegliere cosa vorranno fare da adulte”.
Com’è la sua giornata lavorativa tipo?
“In estate lavoro tutto il giorno, con un’ora di pausa pranzo; in inverno cerco di concentrare le consegne nella mattinata. Mi muovo lungo tutta la Riviera, da Jesolo fino alle Marche”.
Muoversi tutti i giorni nel traffico sarà stressante.
“I fattori di stress, in realtà, sono tanti: oltre al traffico, occorre mantenere il livello di attenzione sempre alto, per evitare di sbagliare le consegne o commettere errori nei documenti di trasporto. L’estate è davvero impegnativa: l’anno scorso ero distrutta”.
Troppe consegne?
“Troppo caldo. Quando abbiamo avviato l’attività non avevo abbastanza budget per permettermi un furgone nuovo e mi sono dovuta accontentare di uno usato, sprovvisto di aria condizionata. È stata dura. Ora le cose vanno meglio, sono in attesa del nuovo mezzo”.
Quali sono i suoi obiettivi per il futuro?
“Vorremmo far crescere l’attività e assumere dei giovani che ci diano una mano”.
Proprio il settore degli autotrasporti lamenta il problema della mancanza di manodopera.
“Credo che oggi i giovani non abbiano bisogno solo di un lavoro per ricevere uno stipendio, ma di essere motivati. È importante che credano in sé stessi e guardino con più fiducia al proprio avvenire”.
Dall’informatica al fuoristrada per poi arrivare alla guida dei camion e nel futuro? Magari una cyber-trucker
Marta, Lola per gli amici, ha 41 anni, ma ne dimostra 20. Brillante, spigliata, ha pure una bella penna con la quale descrive brevi attimi della propria vita da camionista in modo incisivo e sarcastico sui social. Ma soprattutto quello che traspare dai suoi post è una grande passione per tutto quello che fa. Insomma, ci ha incuriosito e l’abbiamo intervistata.
Come nasce questa passione per i camion?
“In realtà non lo so nemmeno io. O meglio, prima di fare questo mestiere ho lavorato nel settore del web digitale insieme ad altri due amici soci per quasi quindici anni. Sono stati anni stupendi, abbiamo creato siti internet, applicazioni e tanto altro ancora ma ad un certo punto quel lavoro non mi dava più soddisfazione. Non riuscivo più ad esprimere la mia creatività. Stava diventando una routine. Così ho deciso di mollare. Proprio in quel periodo stava nascendo in me una gran passione per le auto fuoristrada. Mi affascinava quel mondo di appassionati che ama intervenire personalmente nelle modifiche al mezzo. Partecipare ai raduni. La sfida di percorrere strade impossibili immersi nel fango. Diciamo che l’appetito vien mangiando… volevo spingermi oltre. I camion sarebbero stati la mia prossima meta.”
Dal fuoristrada al camion
“Sta di fatto che nel mese di settembre 2019mi sono iscritta all’autoscuola per prendere la patente C che ho acquisito a gennaio 2020. Il mese successivo è esplosa la pandemia che ha bloccato tutti i corsi e le sessioni d’esame. Siccome quando inizio un percorso, lo devo portare fino in fondo, ho iniziato a studiare da casa come una forsennata e, appena si è allentata la morsa delle chiusure, ad agosto sono riuscita a dare gli esami del CQC e ad ottobre ho concluso il mio percorso con l’ottenimento della CE. A quel punto dovevo cercare lavoro. In vita mia non ho mai chiesto raccomandazioni, però la passione e la voglia di guidare i camion era tanta che andai a trovare mio cugino, che è socio fondatore della Cooperativa Lusia Service partner di Translusia, importante consorzio di autotrasportatori del nord Italia, per chiedergli se mi potevano assumere. Detto, fatto: il 20 febbraio 2021 ho sottoscritto il primo contratto di quattro mesi e sono stata catapultata direttamente sul “bilico.”
“Da allora non sono più scesa! Ho lavorato come frigorista e da qualche mese ho voluto imparare la vasca. Oggi mi sembra incredibile di trovarmi qui a raccontare questa storia e, soprattutto, di fare questo lavoro che amo, con tutti i suoi pro e i suoi contro.”
Sentire il tuo racconto ed il tuo entusiasmo fa riflettere: come mai, secondo te, i giovani non vengono attratti da questo mestiere?
“I vecchi camionisti direbbero per mancanza di passione. Vero, ma le “vecchie guardie” vivono e vedono la realtà secondo la propria prospettiva, com’è giusto che sia. Il che però non costituisce automaticamente una corretta lettura degli scenari attuali. C’è un inevitabile cambiamento in atto. Bisognerebbe spiegare questo alle nuove generazioni di autisti. I nuovi camion sono ricchi di tecnologia. E il trasporto intermodale, spesso citato nei manuali di Scuola Guida, sta diventando realtà, permettendo soluzioni di viaggi più sostenibili. Tutto questo porterà la figura dell’autista come la conosciamo, a sparire, sostituita da una figura più tecnica e sostenuta alla guida dalla tecnologia, in grado quindi di “guidare” un mezzo pesante limitando la fatica fisica delle ore di guida quotidiane.”
“Mi piace anche pensare che la naturale evoluzione di questo mestiere sarà un autista che molto probabilmente non dovrà nemmeno più preoccuparsi di parcheggiare il rimorchio in ribalta perché, una volta programmata l’azione, mezzo e ribalta dialogheranno tra loro realizzando la manovra perfetta. Questi tecno-autisti saranno insomma un po’ come piloti di droni: prepareranno i veicoli e le tratte da un tablet, monitorando seduti sul sedile di guida o a distanza su una poltrona d’ufficio. Sono quasi certa che una professione così “pulita” e comoda, attirerà l’attenzione delle nuove generazioni, più a loro agio con tutto ciò che è virtuale rispetto a ciò che è reale. Quindi, per riprendere la riflessione – continua Lola – il cerchio si chiuderà, secondo gli scenari futuri e non secondo non più attuabili, romantiche concezioni di riqualificazione di un mestiere che sta naturalmente evolvendo. Una volta per far il camionista servivano unicamente la passione per la guida, per i viaggi, per il voler essere autonomi e liberi dalla routine. Insomma, credo che molto probabilmente un giorno la professione diventerà più tecnica… ma onestamente sono contenta di poter vivere questo momento davanti a un volante big size anzichè un monitor!”
Con il decreto Milleproroghe il governo concede un voucher dal valore di 2500 euro per ogni individuo di età compresa tra i 18 e i 35 anni, che intende prendere le patenti C1, C, C1E, CE, D1, D, D1E, DE e CQC. Pensi che sia utile questa iniziativa per attirare i giovani al mestiere di camionista?
“Riguardo all’agevolazione sui corsi per l’ottenimento delle patenti, penso che oggi nessuno acquisterebbe qualcosa che non sia stata pubblicizzata nel modo più accattivante possibile. Intendo dire che i giovani non conoscono quasi nulla di questa professione e quello che sanno, lo hanno imparato da superati cliché cinematografici o folkloristici. I voucher hanno un’anima prettamente commerciale e pertanto acquistano valore se quello a cui servono viene dato valore. E in Italia il mestiere dell’autista di mezzi pesanti non è valorizzato dalle Istituzioni, è sempre più sconosciuto, invisibile, maltrattato. Una professione priva di un valore riconosciuto sia in termini di economia che di status del lavoratore.”
Silvia Martellotta: «Fare l’autista non è solo un lavoro, è uno stile di vita»
Silvia Martellotta ha 52 anni e quattro anni fa, nel 2019, ha deciso di cambiare la sua vita per diventare autista. Una scelta fatta un po’ per necessità, un po’ per vocazione, «ma la passione non basta» tiene a precisare, «per fare questo mestiere bisogna essere disposti a fare molti sacrifici». Lo sa bene Silvia, che è anche mamma di due ragazzi…
Sono le cinque di un pomeriggio di luglio quando Silvia risponde al telefono. La fatica nella sua voce lascia intuire che non si trovi alla guida. «Sto caricando il camion – conferma – tra poco parto». L’ennesimo viaggio che la porterà lontana da casa, in provincia di Livorno, per l’intera settimana. Partenza il lunedì e rientro il venerdì in serata, talvolta il sabato mattina. Silvia Martellotta, 52 anni e “ufficialmente autista” dal 2019 trasporta principalmente ferro, tubi e lamiere dalla Toscana al nord Italia. Questa vita l’ha scelta un po’ per necessità e un po’ per vocazione, ma tiene subito a chiarire che non vuole che passi il messaggio che basta un po’ di passione per fare questo mestiere ma «servono i sacrifici perché fare l’autista non è solo un lavoro, è uno stile di vita». E allora lo chiariamo subito, a scanso di equivoci.
La grinta Silvia l’ha presa tutta dalla mamma, una pioniera dei van camperizzati – oggi ormai un trend – e una delle poche donne a guidare, all’epoca, un mezzo del genere. «Dopo il divorzio da mio padre – ricorda Silvia – per trascorrere dei momenti insieme a me e i miei fratelli ci caricava tutti sul suo van che usava anche per la sua attività come floricoltrice e ci portava in vacanza». È così che nasce la passione di Silvia per i viaggi; quella per la guida, invece, arriva più tardi. «Avevo 23 anni e lavoravo nel campo ippico. La patente del camion serviva per il trasporto dei cavalli perché settimanalmente c’erano trasferte da fare per le gare e così la presi. Certo non posso dire che ero un’autista come lo sono oggi, guidavo quando ce ne era bisogno».
La carriera di Silvia era avviata, in tasca aveva tutti i brevetti professionali, da quello per l’allenamento dei cavalli a quello per il salto a ostali, ma è quando cambia la gestione dell’ippodromo per cui lavora che Silvia capisce che è il momento di cambiare vita. «Decisi di rinnovare le patenti che già avevo conseguito e prendere la E». Le sorprese, però, non sono finite. «Rimasi incinta della mia seconda figlia per cui per alcuni anni dovetti mettere in pausa il mio progetto per dedicarmi a lavori più saltuari, ma che mi permettevano di starle vicina».
La maternità di un’autista, per Silvia come per molte altre donne, è ancora un tasto dolente.
«Quando rimasi incinta la prima volta lavoravo ancora nel campo ippico e grazie all’aiuto del mio team non fu affatto un problema. Mio figlio Davide, che oggi ha 27 anni, salì per la prima volta sul camion insieme a me quando aveva appena una settimana. Fu una trasferta breve, ma un’esperienza bellissima». Le cose vanno diversamente con la nascita della seconda figlia, Vittoria, che oggi ha 18 anni. «Se non hai un aiuto esterno o non ti puoi permettere una baby-sitter non c’è modo di farcela. Così ho messo in pausa l’idea di lavorare a tempo pieno come autista e per diversi anni mi sono arrangiata facendo qualche lavoretto, tra cui anche qualche viaggio ma solo trasferte giornaliere». Nel 2019 la figlia è ormai adolescente e Silvia decide che è arrivato il momento di riprendere quell’idea messa da parte per troppo tempo. «Decisi di cambiare radicalmente la mia vita e iniziare a fare la linea, ma devo ammettere che fu un trauma tanto per me quanto per lei. L’abbiamo vissuta male entrambe, io per l’apprensione, lei per la distanza. Più di una volta le ho detto che se la situazione fosse diventata troppo difficile avrei valutato di cambiare lavoro per lei perché se deve essere deleterio per i figli il gioco non vale la candela». Una crisi familiare superata grazie «alla forza di volontà, soprattutto da parte sua. Io cercai solo di farle capire che con questo nuovo lavoro potevamo stare meglio a livello economico, permetterci cose che prima non si potevano fare. È stato un sacrificio giornaliero da parte di entrambe. Da parte mia ho cercato di supportarla il più possibile nelle sue passioni, ma non basta, essere presenti è un’altra cosa. Fortunatamente sia Vittoria che Davide in mia assenza hanno potuto contare sulla presenza del loro papà, Enzo, sempre attento e premuroso».
L’unica soluzione al problema, per Silvia, «è una revisione dell’articolo 54 del Codice della strada che impedisce di portare altre persone al di fuori dei dipendenti sui mezzi».
«Certo – precisa – andrebbe fatto con cognizione di causa e senso di responsabilità, in sicurezza insomma, ma in questo modo si darebbe la possibilità a genitori e figli di passare del tempo insieme. Tra l’altro non dimentichiamo che un tempo molti arrivavano a fare questo mestiere proprio perché da piccoli avevano viaggiato con i genitori. Io stessa da ragazzina ho viaggiato sul camion di qualche amico di famiglia e furono esperienze che mi aprirono gli occhi su questo mestiere». In altre parole, una soluzione che strizza l’occhio anche al problema della carenza di giovani autisti. «La realtà è diversa dai simulatori a cui oggi siamo abituati, un po’ di esperienza sul campo penso sia solo positiva, così come si fa già all’estero».
Il tema della responsabilità però è spinoso. «Devo ammettere che se il prezzo da pagare per una violazione della norma fosse stato un verbale a mio nome mio e a mie spese, io avrei rischiato; ma siccome il rischio è per l’azienda diventa impossibile trovare un punto di incontro».
Quello della lontananza dalla famiglia cui gli autisti sono spesso costretti non è però l’unico problema da scontare: un altro tasto dolente è quello dei servizi.
«Spesso ci ritroviamo al carico o allo scarico in piazzali gelidi d’inverno e roventi d’estate, senza un posto in cui poter socializzare o riposare perché il più delle volte occorre aspettare davanti al tabellone l’avviso per poter entrare. Tutto questo genera solo ulteriore stress e stanchezza, ma quando si riparte e si va in strada non possiamo permetterci di non essere al 100%. Basterebbe poco, basterebbe che le aziende creassero un piccolo spazio sociale, così lo definirei, all’aperto o al chiuso, in cui gli autisti possano passare le ore di attesa in serenità, bere una bibita, chiacchierare o fare attività fisica, riposarsi insomma. Per non parlare delle aree di sosta dove ci accalchiamo senza servizi adeguati. È un tema di cui si parla molto, ma nonostante questo il problema sussiste. La soluzione l’ho trovata da sola: ho messo sul camion un piccolo gabinetto, di quelli che si usano anche sui camper, da usare in caso di emergenza. La verità è che lo uso regolarmente, perché spesso non ci sono soluzioni alternative o adeguate».
Non manca però anche il rovescio della medaglia.
«Dal momento che c’è carenza di autisti ho trovato subito lavoro, anche se resta il problema dello scarso affiancamento iniziale. Tutto quello che ho imparato lo devo ai miei colleghi che con molta pazienza e gentilezza mi hanno insegnato quello che c’è da sapere. Ho avuto la fortuna di incontrare solo persone che hanno compreso le mie difficoltà e mi hanno aiutata, a loro sono e sarò sempre infinitamente grata. Questo lavoro ti mette ogni giorno di fronte a imprevisti che sono difficili da gestire, ti costringe a prendere consapevolezza dei tuoi limiti e delle tue paure e a cambiare anche le tue abitudini più elementari; ma proprio perché permette di crescere, evolversi e imparare tanto che spesso dà anche grandi soddisfazioni».
Ci resta solo un’ultima curiosità, così chiediamo a Silvia che cosa sia rimasto di quella sua passione per gli animali che per tanto tempo l’ha portata a lavorare con i cavalli. «Non è mai sparita – ci rivela – tanto che più volte per strada mi sono trovata a soccorrere degli animali in difficoltà. Ho salvato due corvi e una tortorella. Quest’ultima l’ho portata con me in piazzale e una volta guarita è rimasta lì, a farci compagnia».
Un’altra nuova collega, Beatriz, ci racconta la sua storia in questa intervista di Elisa Bianchi dal blog di Uomini e Trasporti – Anche io volevo il camion.
Beatriz Alvez: «La mia nuova vita (felice) alla guida di un camion»
Ha 52 anni, è argentina ed è «una forza della natura», o almeno così si sente dire di lei in giro. In effetti, la storia di Beatriz Alvez, autista da poco più di un anno, è tutt’altro che scontata: nella sua famiglia nessuno è autista e anzi, nemmeno lei ha mai pensato di trovare posto in cabina. E allora cosa ci fa un’ex odontoiatra di Buenos Aires alla guida di una motrice?
Ci sono interviste che non hanno bisogno di frasi a effetto introduttive. Questa a Beatriz Alvez è una di quelle, perché la sua storia è un susseguirsi di colpi di scena che forse più che un’introduzione servirebbe una premessa: per leggerla non bisogna aver paura di saltare nel vuoto.
Beatriz Alvez nasce cinquantadue anni fa da una famiglia di militari, nella campagna argentina. Dopo l’infanzia si trasferisce a Buenos Aires dove si laurea in odontoiatria e conosce l’amore. Si sposa e diventa mamma di due bambini, un maschio e una femmina, che cresce mentre avvia la sua carriera in uno studio dentistico. 11.147 chilometri più in là, esattamente la distanza che divide l’Italia da Buenos Aires, l’attende però la sua nuova vita. Ecco il primo salto nel vuoto.
Undici anni fa l’ormai ex marito di Beatriz decide di trasferirsi in Italia con i figli: l’Argentina sta passando un periodo buio, il pericolo è dietro l’angolo e Beatriz decide di seguire la sua famiglia. Si traferisce a Frosinone, in campagna, dove ritrova le abitudini dell’infanzia e inizia una nuova vita. «Non è stato facile all’inizio, lo ammetto. La mia laurea argentina in Italia non vale, quindi ho dovuto reinventarmi». E Beatriz ci riesce benissimo: trova lavoro come divulgatrice scientifica per una grande azienda e inizia così a viaggiare in tutto il mondo per lavoro. «Ho fatto questa vita per sette anni, poi mi sono resa conto che ero stanca. Quando il mio contratto è scaduto, ho deciso di non rinnovare, di prendermi del tempo per me. Di mezzo c’è stato il covid e poi ho iniziato a viaggiare per piacere, da sola, prendevo la mia macchina e partivo. Avevo voglia di guidare». Ed è qui che qualcosa scatta. La scintilla si accende e in una come Beatriz è difficile spegnerla: «Vedevo spesso i camion posteggiati nelle piazzole di sosta, mi incuriosiva guardali, finché a un certo punto mi sono detta: perché non guidare per lavoro?». Dalla nascita dell’idea alla sua esecuzione il passo è breve. Beatriz prende le patenti e in poco tempo si ritrova a cercare lavoro come autotrasportatrice.
Ma qui il dubbio sorge: forse era già un sogno custodito nel cassetto?
Assolutamente no, mai mi sarei immaginata di fare l’autista, nella mia famiglia nessuno ha fatto questo mestiere prima e sicuramente nessuno si aspettava che io a 52 anni prendessi questa strada. Ma nella mia vita mi è sempre stato detto quello che dovevo fare, per una volta volevo decidere per me stessa, seguire quello che mi faceva stare bene e quello che mi faceva stare bene in quel momento era guidare.
Per iniziare, però, serve trovare un lavoro.
Caricai il mio curriculum su internet ma fu un errore perché iniziai a ricevere diverse chiamate che possiamo definire delle prese in giro. Un giorno mi suonò il telefono, era un uomo e mi chiedeva se davvero stessi cercando lavoro come autista. Alla mia risposta affermativa mi disse che era meglio se andavo a lavare i piatti. Appesi, non vale la pena arrabbiarsi. Molte ditte a cui mi rivolsi però mi dissero che non potevano assumermi perché non avevano donne con cui farmi fare l’affiancamento e con un collega uomo sarebbero sicuramente sorti problemi. Ci sono ancora tante barriere da abbattere, evidentemente. Però alla fine ce l’ho fatta, ho trovato il lavoro che volevo alla guida di una motrice frigo.
A distanza di poco più di un anno la scintilla c’è ancora?
Rifarei questa scelta anche prima, non so perché ho perso tanto tempo. Dicono tutti che quella dell’autista è una vitaccia, per carità è vero non è facile. Si lavora tante ore, la maggior parte delle quali passate in solitudine e se c’è qualche problema te lo devi risolvere da solo, ma in fondo anche nel mio primo lavoro era così. Se hai un paziente sul lettino hai comunque delle responsabilità, hai dei problemi da risolvere. Sul camion ne hai di più e soprattutto devi pensare che sulla strada non sei solo, ci sono macchine, pedoni e ciclisti.
Un problema di cui si sente parlare spesso ultimamente…
Sì, ma viene mostrato solo un lato. La colpa, alla fine, ricade sempre sull’autista ma ci si dimentica di guardare cosa sta dietro al problema. Spesso si lavora in condizioni difficili, le regole non vengono rispettate oppure chi si occupa di pianificare i trasporti non conosce le reali caratteristiche di un determinato territorio e il risultato è che ti trovi a dover scegliere tra il meno peggio. Così non va bene, non funziona, serve più controllo perché quello che vediamo è solo la punta dell’iceberg.
A risentirne, alla fine, è l’immagine del settore.
Ci sono molti stereotipi rispetto alla figura dell’autista, di conseguenza spesso si pensa di poterne approfittare. Ma l’intelligenza non è data dai titoli di studio, ho conosciuto persone che sanno fare benissimo il proprio lavoro alla guida di un camion pur non avendo studiato. Questo settore, che non è sicuramente facile, è fatto da persone competenti e dobbiamo essere orgogliosi di questo, noi autisti in primis. Eppure, le aziende che la pensano così sono ancora poche. Faccio un esempio: qualche tempo fa ho ripreso a mandare il mio curriculum perché volevo cambiare, ma alla fine su consiglio di mio figlio ho dovuto togliere la mia esperienza come odontoiatra e divulgatrice scientifica. A quanto pare ero “troppo qualificata” e penso sia un peccato perché è una cosa di cui io vado orgogliosa.
Alla fine, il lavoro l’hai trovato?
Sì, ho iniziato da pochi giorni. Guido il bilico e faccio trasporti in ADR. L’affiancamento lo sto facendo con una ragazza, l’unica altra donna oltre a me in azienda.
Perché ci sono ancora così poche donne secondo te?
I tabù ci sono ancora non possiamo negarlo, eppure è provatissimo che noi donne possiamo fare questo mestiere. Dobbiamo entrare nel settore perché possiamo essere un valore aggiunto, possiamo cambiarne l’immagine. E poi non se ne può più dello stereotipo che una donna autista non sia femminile. Io oggi mi sento femminile tanto quanto lo ero da odontoiatra e non perderò questa caratteristica facendo questo lavoro.
Però sicuramente è richiesto uno sforzo fisico.
Sì, ma il camion non lo devo portare in spalla. La prima volta che sono salita in cabina pensai che fosse un mezzo davvero imponente, eppure potevo controllarlo con le mie mani. Se devo essere sincera, mi sono sentita come un Transformers, quelli dei film. Certo non nego che all’inizio anche io ero preoccupata per il peso dei carichi e degli scarichi, ma ho capito che basta un po’ di pratica e manualità ed è fatta. Sicuramente è richiesto uno sforzo, ma non sovraumano, altrimenti non sarei qui oggi a parlarne. E pensare che io non avevo mai guidato neanche un suv, ho sempre avuto macchine piuttosto piccole.
Qual è il ricordo più bello che hai collezionato in questo primo anno come autista?
Qualche mese fa andai a scaricare a Roma. Stavo facendo manovra quando vidi una donna nel piazzale che guardava incuriosita in cabina. Quando entrai in magazzino mi ricevettero tutti con un applauso: era stata lei a dire ai ragazzi che c’era una donna a fare manovra con il camion e che meritavo un applauso. Questi momenti sono emozionanti, una cosa del genere non mi era mai successa nella mia precedente professione.
Hai già in programma altri cambiamenti per il futuro?
Io sono fatta così, quando mi annoio devo cambiare. Ho pensato di fare l’estero, era una delle opzioni sul tavolo quando ho scelto di lasciare la precedente ditta per cui lavoravo, ma ho già viaggiato tanto in vita mia e la sera mi piace tornare a casa, ai miei spazi. Sono nonna adesso e vorrei godermi anche la mia nipotina, le mie amicizie, la mia casa, il mio orto, le mie passioni. Sicuramente voglio fare questo lavoro finché potrò e nel frattempo studiare per continuare a crescere. Sto seguendo un corso per diventare gestore dei trasporti, ma prima di tutto occorre imparare le basi, imparare il mestiere.
Un’ultima domanda: dove trovi tutta questa determinazione?
Credo nella forza di noi donne.
Come dicevo sono nonna adesso, non voglio che mia nipote si senta fuori posto nel mondo o che pensi che non possa fare qualcosa solo perché donna.
Deve poter scegliere di fare quello che le piace.
Mi dico sempre che se un essere umano fa qualcosa lo può fare anche un altro, indipendentemente dal fatto che sia uomo o donna.
La bella storia della nostra collega Silvia, da 18 anni al volante di un camion, raccontata in questa intervista di Elisa Bianchi nel blog “Anche io volevo il camion” di “Uomini e trasporti”.
Silvia Compagno: «Ai più giovani bisogna spiegare che quello che trovano nei supermercati arriva grazie agli autisti»
Un’infanzia passata nella campagna veneta, tra trattori e mezzi da lavoro. Silvia Compagno è solo una bambina quando si innamora per la prima volta dei camion: suo papà sta facendo dei lavori in casa e l’iconico Lupetto fa capolinea nel cortile dell’abitazione per portare i materiali. Non è un bestione della strada come quelli che guida oggi, ma è sufficiente per far nascere in lei l’interesse. Quando decide, per gioco, di salire su quel Lupetto qualcosa scatta: è quello l’inizio della sua storia con l’autotrasporto
All’inizio Silvia si limita a guardare i camion da lontano: «Dalla camera da letto dei mei genitori si vedeva il posteggio di un concessionario Volvo. All’epoca insieme ai detersivi regalavano delle macchinette fotografiche, quelle con il rullino. Mi nascondevo in camera dei miei e usavo l’obiettivo della macchina fotografica come binocolo, per vedere meglio i camion posteggiati». Oggi Silvia Compagno ha 49 anni, è diventata Volvo Trucks Ambassador e il prossimo 6 ottobre festeggerà la maturità al volante: autista da 18 anni. Nel mezzo, tanti viaggi, tanti sacrifici e soprattutto tanti cambiamenti. Il primo, il più importante di tutti, a 31 anni, quando si trova di fronte a una scelta: cambiare vita e inseguire il suo sogno, o proseguire con il lavoro in fabbrica. «Mia mamma era morta da poco – ricorda Silvia – e io mi dovevo prendere cura di mio papà. Non sapevo cosa fare, ma dovevo decidere nel giro di breve tempo. Ricordo che un giorno mi fermai in un piazzale vicino all’autostrada e lì, in lacrime, decisi di provarci».
Silvia supera in poco tempo tutti gli esami delle patenti con la speranza di trovare facilmente lavoro. Di donne al volante se ne vedevano ancora poche e il successo non era affatto scontato. «Io, tra l’altro, sono sempre stata piccolina, per questo mi chiamavano affettuosamente “Silvietta”, non sembravo certo adatta a un lavoro come questo. Inizialmente trovai lavoro solo come autista di bus: prima per una cooperativa per la quale guidavo i pulmini per i ragazzi disabili, poi per l’ACTV di Venezia, l’azienda di trasporto pubblico. Per tre anni e mezzo mi sono accontentata di fare un po’ da jolly, mi chiamavano quando mancava un altro autista, ma sentivo che non era quella la mia strada, anche se sicuramente è stata un’esperienza utile». La svolta arriva nel 2004. «Mi fu data una possibilità come autista di un portacontainer. Fu grazie a quell’esperienza che capii che davvero era il lavoro che faceva per me. Ogni giorno imparavo cose nuove e conoscevo nuove persone».
Oggi Silvia ha cambiato azienda e alla guida del suo Volvo trasporta un po’ di tutto: stoffe, vino, mobili, talvolta anche merci pericolose. Da Ballò di Mirano, in provincia di Venezia, dove vive, parte per le altre province del Veneto, per il Trentino e per la Liguria. Viaggi giornalieri che però l’hanno spesso portata a togliere tempo alla famiglia e ai tre nipoti di cui è zia orgogliosa. «Anni fa mia nipote Linda, allora adolescente, mi fece notare che il mio non era un bel lavoro, almeno dal suo punto di vista. Non avevo orari, non c’ero per loro tutte le volte che ne avevano bisogno. Ci rimasi molto male, ma cercai di spiegarle che è grazie a chi fa questo mestiere se tutti i giorni al supermercato trova il cibo che mangia. Le cose non arrivano per caso, qualcuno le deve portare, anche se costa qualche sacrificio. Certo che finché questo non lo si spiega ai più giovani, giustamente è difficile che lo capiscano. Inoltre, oggi la nostra professione non gode più del rispetto di un tempo, per colpa della mancanza di educazione di pochi ci abbiamo rimesso tutti. Dal mio punto di vista il progresso ha portato anche a tanto regresso. Oggi abbiamo camion più belli, più comodi e più sicuri, ma mancano i servizi che ci permettono di svolgere questo lavoro con dignità».
Silvia insieme a Elda
La rabbia, però, lascia presto il posto ai bei ricordi che la legano a questo mestiere. «Negli anni ho avuto modo di conoscere persone straordinarie con cui ho costruito rapporti bellissimi, perché se ti presenti con il sorriso e con educazione, penso che il rispetto venga da sé». Una delle persone a cui Silvia è più legata è l’amica storica Elda Guarise, anche lei una veterana del settore. «Conobbi Elda in concessionaria Volvo a Dolo all’inizio della mia carriera. All’epoca lei già guidava la motrice, io ancora il furgone e la prima cosa che pensai fu che era bello vedere una donna alla guida di un camion. Elda aprì una speranza in me. Vedere lei farcela dava a me la forza di provarci». La loro amicizia che dura ormai da 18 anni è immortalata anche sui profili social di Silvia dove spesso e volentieri condivide le sue esperienze, come quella vissuta proprio con Elda qualche mese fa alla guida di un camion elettrico. Le chiediamo quindi se, dal suo punto di vista, sia questa la strada giusta da seguire per la decarbonizzazione del settore. «Penso si debba trovare una soluzione ibrida: i mezzi elettrici per trasporti più brevi e i mezzi diesel per i trasporti più lunghi e pesanti, perché oggi i costi sono ancora molto elevati, si è limitati nel kilometraggio e soprattutto mancano i punti di ricarica. Credo che la valutazione debba essere fatta in base alla tipologia di lavoro».
Prima di salutare Silvia, diretta all’Interporto di Padova per uno scarico, le chiediamo come festeggerà i suoi 18 anni in cabina. «Penso che non ci sia cosa migliore da fare che fermarsi per cinque minuti, tirare il freno a mano e ringraziare per quello che si ha. La vita non è fatta di cose materiali ma di sentimenti e il camion, per me, è un pezzo di cuore».
Questo articolo non è nuovo, risale a ottobre 2020, ma visto che non l’avevo trovato prima e quindi non l’avevo condiviso, lo faccio adesso, anche perchè racconta la storia della nostra Elda vista attraverso gli occhi di sua figlia Marta quando parteciparono al programma “Tutto su mia madre”.
Non ci credeva nessuno, vent’anni fa, quando Marta Pegorin raccontava la professione della madre, Elda. La storia, tutta cittadellese e con le mura a fare da suggestivo sfondo, è stata svelata dal programma di Rai Tre “Tutto su mia madre”, che riprende un capolavoro di coralità al femminile di Almodovar. Oggi Elda Guarise, 57 anni, e il marito Giovanni Pegorin hanno una ditta di trasporti a conduzione familiare dove lavora anche la primogenita Marta, che si occupa di contabilità. «I miei genitori guidano il camion. Anche mia mamma. Tutti pensano ad un camioncino. Quando la incrociano dal vivo esclamano: “Ma non immaginavo così grande”»: è l’incipit della testimonianza di Marta, 37 anni, tre figli. Quello di mamma Elda è un carattere fermo: «Non sono una fru fru, fatico a dire “ti voglio bene”, ma i messaggi sul telefonino aiutano».
Una storia di fatica, di Nordest laborioso, di prime occupazioni a 14 anni, di sudore e di famiglie che crescono.
«Non c’erano tante possibilità», spiega l’autotrasportatrice, «a 14 anni ho iniziato a lavorare, in un magazzino di frutta, arrivavano camion dall’estero, grandi, mi ricordo il rumore del frigo che funzionava». Poi arriva l’incontro con il futuro marito, è un amore importante, a neanche vent’anni Elda diventa mamma di Marta, che però si lamenta, nel quartiere in cui cresce non ci sono tanti bambini, e la famiglia aumenta, arrivano Mattia ed Ermes.
Poi arriva lo sfratto, il condominio viene messo in vendita, mamma e papà decidono di trovare una nuova soluzione, scelgono la casa, con un’attenzione particolare per il camion di Giovanni. Che, a cavallo del 2000, lancia una proposta alla moglie: «Perché non prendi la patente del camion?». Lei ci pensa, poi si butta, va alla scuola guida, registra le lezioni, le riascolta mentre si occupa della faccende domestiche, all’esame teme le domande dell’ingegnere, che la interroga sul cambio, il suo punto debole.
Da lì, la vita cambia: levatacce, ritorno alla sera tardi, e i piccoli prendono confidenza con i post-it e le indicazioni di mamma, che non è più lì a seguirli, a fare colazione con loro. Prepara tutto e poi parte, via a lavorare. Marta cresce in fretta, tocca a lei prendersi una buona fetta della cura dei fratellini.
«Inizialmente affiancava papà e poi è partita. Lui le diceva “devi viaggiare da sola se vuoi imparare”. E poi è arrivato il suo camion», racconta la figlia. Elda se lo personalizza, ci mette il suo tocco femminile: «Mi sono sempre piaciute le tende. Il primo aveva i sedili bianchi e le finiture gialle, un confetto». Non sono mancati gli episodi di sessismo, i veleni: «Che vada a lavare i piatti». Ma Elda ha tirato dritto: «Si infastidiscono di più se sei indifferente». E la famiglia le è sempre rimasta vicina: «Non l’ho mai criticata», ricorda Marta, «anche se la chiamavo sempre, le chiedevo dove fosse, e le raccomandavo di chiudere i finestrini. Una notte mi ha chiamato, si è dovuta fermare, c’era vicino a lei una persona poco raccomandabile, siamo rimaste al telefono, e alla fine è partita». Chi sta sulla strada incrocia pericoli, ogni giorno. A settembre del 2009 Elda è stata coinvolta in un incidente: «Avevo una consegna unica, ero tranquillissima, in sorpasso, quando mi si è parata davanti una colonna, il camion che avevo davanti a me mi è entrato in cabina». Marta ricorda quegli istanti: «Mamma piangeva e urlava, sono corsa, il camion era accartocciato, ma lei non aveva un graffio». Ma il martito l’ha spronata: «Riprendi e vai». È ritornata, alla sua passione, al suo lavoro, «con la volontà di portare avanti un progetto di famiglia». E ora i nipotini sono entusiasti del camion di nonna, uno spazio di gioco, che trasmette loro il senso dell’avventura. Scenderà? «Solo quando mi toglieranno la patente». —
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