Lo stile di vita di Silvia!

 

 

Dal Blog “Anche io volevo il camion” di “Uomini e Trasporti”, l’intervista di Elisa Bianchi alla collega Silvia Martellotta.

Il link dell’articolo:

https://www.uominietrasporti.it/uet-blog/anche-io-volevo-il-camion/silvia-martellotta-fare-lautista-non-e-solo-un-lavoro-e-uno-stile-di-vita/

E il testo:

Silvia Martellotta: «Fare l’autista non è solo un lavoro, è uno stile di vita»

Silvia Martellotta ha 52 anni e quattro anni fa, nel 2019, ha deciso di cambiare la sua vita per diventare autista. Una scelta fatta un po’ per necessità, un po’ per vocazione, «ma la passione non basta» tiene a precisare, «per fare questo mestiere bisogna essere disposti a fare molti sacrifici». Lo sa bene Silvia, che è anche mamma di due ragazzi…

Sono le cinque di un pomeriggio di luglio quando Silvia risponde al telefono. La fatica nella sua voce lascia intuire che non si trovi alla guida. «Sto caricando il camion – conferma – tra poco parto». L’ennesimo viaggio che la porterà lontana da casa, in provincia di Livorno, per l’intera settimana. Partenza il lunedì e rientro il venerdì in serata, talvolta il sabato mattina. Silvia Martellotta, 52 anni e “ufficialmente autista” dal 2019 trasporta principalmente ferro, tubi e lamiere dalla Toscana al nord Italia. Questa vita l’ha scelta un po’ per necessità e un po’ per vocazione, ma tiene subito a chiarire che non vuole che passi il messaggio che basta un po’ di passione per fare questo mestiere ma «servono i sacrifici perché fare l’autista non è solo un lavoro, è uno stile di vita». E allora lo chiariamo subito, a scanso di equivoci.

La grinta Silvia l’ha presa tutta dalla mamma, una pioniera dei van camperizzati – oggi ormai un trend – e una delle poche donne a guidare, all’epoca, un mezzo del genere. «Dopo il divorzio da mio padre – ricorda Silvia – per trascorrere dei momenti insieme a me e i miei fratelli ci caricava tutti sul suo van che usava anche per la sua attività come floricoltrice e ci portava in vacanza». È così che nasce la passione di Silvia per i viaggi; quella per la guida, invece, arriva più tardi. «Avevo 23 anni e lavoravo nel campo ippico. La patente del camion serviva per il trasporto dei cavalli perché settimanalmente c’erano trasferte da fare per le gare e così la presi. Certo non posso dire che ero un’autista come lo sono oggi, guidavo quando ce ne era bisogno».

La carriera di Silvia era avviata, in tasca aveva tutti i brevetti professionali, da quello per l’allenamento dei cavalli a quello per il salto a ostali, ma è quando cambia la gestione dell’ippodromo per cui lavora che Silvia capisce che è il momento di cambiare vita. «Decisi di rinnovare le patenti che già avevo conseguito e prendere la E». Le sorprese, però, non sono finite. «Rimasi incinta della mia seconda figlia per cui per alcuni anni dovetti mettere in pausa il mio progetto per dedicarmi a lavori più saltuari, ma che mi permettevano di starle vicina».

La maternità di un’autista, per Silvia come per molte altre donne, è ancora un tasto dolente.
«Quando rimasi incinta la prima volta lavoravo ancora nel campo ippico e grazie all’aiuto del mio team non fu affatto un problema. Mio figlio Davide, che oggi ha 27 anni, salì per la prima volta sul camion insieme a me quando aveva appena una settimana. Fu una trasferta breve, ma un’esperienza bellissima». Le cose vanno diversamente con la nascita della seconda figlia, Vittoria, che oggi ha 18 anni. «Se non hai un aiuto esterno o non ti puoi permettere una baby-sitter non c’è modo di farcela. Così ho messo in pausa l’idea di lavorare a tempo pieno come autista e per diversi anni mi sono arrangiata facendo qualche lavoretto, tra cui anche qualche viaggio ma solo trasferte giornaliere». Nel 2019 la figlia è ormai adolescente e Silvia decide che è arrivato il momento di riprendere quell’idea messa da parte per troppo tempo. «Decisi di cambiare radicalmente la mia vita e iniziare a fare la linea, ma devo ammettere che fu un trauma tanto per me quanto per lei. L’abbiamo vissuta male entrambe, io per l’apprensione, lei per la distanza. Più di una volta le ho detto che se la situazione fosse diventata troppo difficile avrei valutato di cambiare lavoro per lei perché se deve essere deleterio per i figli il gioco non vale la candela». Una crisi familiare superata grazie «alla forza di volontà, soprattutto da parte sua. Io cercai solo di farle capire che con questo nuovo lavoro potevamo stare meglio a livello economico, permetterci cose che prima non si potevano fare. È stato un sacrificio giornaliero da parte di entrambe. Da parte mia ho cercato di supportarla il più possibile nelle sue passioni, ma non basta, essere presenti è un’altra cosa. Fortunatamente sia Vittoria che Davide in mia assenza hanno potuto contare sulla presenza del loro papà, Enzo, sempre attento e premuroso».

L’unica soluzione al problema, per Silvia, «è una revisione dell’articolo 54 del Codice della strada che impedisce di portare altre persone al di fuori dei dipendenti sui mezzi».
«Certo – precisa – andrebbe fatto con cognizione di causa e senso di responsabilità, in sicurezza insomma, ma in questo modo si darebbe la possibilità a genitori e figli di passare del tempo insieme. Tra l’altro non dimentichiamo che un tempo molti arrivavano a fare questo mestiere proprio perché da piccoli avevano viaggiato con i genitori. Io stessa da ragazzina ho viaggiato sul camion di qualche amico di famiglia e furono esperienze che mi aprirono gli occhi su questo mestiere». In altre parole, una soluzione che strizza l’occhio anche al problema della carenza di giovani autisti. «La realtà è diversa dai simulatori a cui oggi siamo abituati, un po’ di esperienza sul campo penso sia solo positiva, così come si fa già all’estero».
Il tema della responsabilità però è spinoso. «Devo ammettere che se il prezzo da pagare per una violazione della norma fosse stato un verbale a mio nome mio e a mie spese, io avrei rischiato; ma siccome il rischio è per l’azienda diventa impossibile trovare un punto di incontro».

Quello della lontananza dalla famiglia cui gli autisti sono spesso costretti non è però l’unico problema da scontare: un altro tasto dolente è quello dei servizi.
«Spesso ci ritroviamo al carico o allo scarico in piazzali gelidi d’inverno e roventi d’estate, senza un posto in cui poter socializzare o riposare perché il più delle volte occorre aspettare davanti al tabellone l’avviso per poter entrare. Tutto questo genera solo ulteriore stress e stanchezza, ma quando si riparte e si va in strada non possiamo permetterci di non essere al 100%. Basterebbe poco, basterebbe che le aziende creassero un piccolo spazio sociale, così lo definirei, all’aperto o al chiuso, in cui gli autisti possano passare le ore di attesa in serenità, bere una bibita, chiacchierare o fare attività fisica, riposarsi insomma. Per non parlare delle aree di sosta dove ci accalchiamo senza servizi adeguati. È un tema di cui si parla molto, ma nonostante questo il problema sussiste. La soluzione l’ho trovata da sola: ho messo sul camion un piccolo gabinetto, di quelli che si usano anche sui camper, da usare in caso di emergenza. La verità è che lo uso regolarmente, perché spesso non ci sono soluzioni alternative o adeguate».

Non manca però anche il rovescio della medaglia.
«Dal momento che c’è carenza di autisti ho trovato subito lavoro, anche se resta il problema dello scarso affiancamento iniziale. Tutto quello che ho imparato lo devo ai miei colleghi che con molta pazienza e gentilezza mi hanno insegnato quello che c’è da sapere. Ho avuto la fortuna di incontrare solo persone che hanno compreso le mie difficoltà e mi hanno aiutata, a loro sono e sarò sempre infinitamente grata. Questo lavoro ti mette ogni giorno di fronte a imprevisti che sono difficili da gestire, ti costringe a prendere consapevolezza dei tuoi limiti e delle tue paure e a cambiare anche le tue abitudini più elementari; ma proprio perché permette di crescere, evolversi e imparare tanto che spesso dà anche grandi soddisfazioni».

Ci resta solo un’ultima curiosità, così chiediamo a Silvia che cosa sia rimasto di quella sua passione per gli animali che per tanto tempo l’ha portata a lavorare con i cavalli. «Non è mai sparita – ci rivela – tanto che più volte per strada mi sono trovata a soccorrere degli animali in difficoltà. Ho salvato due corvi e una tortorella. Quest’ultima l’ho portata con me in piazzale e una volta guarita è rimasta lì, a farci compagnia».


 

 

Buona strada sempre Silvia!

Un tributo a Teresina…

 

Oggi, tornando dal Raduno di Susa, abbiamo pensato di fermarci  a Settimo Torinese per rendere omaggio alla memoria di Teresina Bruno, la prima donna camionista italiana.

Vi ricordate che qualche tempo fa ho pubblicato il link dell’articolo in cui si parlava della panchina che le era stata dedicata nel “Sentiero delle donne”?

https://primasettimo.it/attualita/una-panchina-per-teresina-in-via-modigliani-il-tributo-alla-staffetta-partigiana-settimese/

Ci siamo fermati li, in via Modigliani, e abbiamo scattato qualche foto rivolgendole un pensiero…

Mi ha sempre affascinato la sua storia, immaginarla alla guida del suo camion nel dopoguerra, in un epoca in cui le donne difficilmente guidavano le automobili, cosa che allora era riservata quasi esclusivamente agli uomini.

Pensare che lei fu praticamente obbligata da suo papà a prendere la patente superiore, quando ancora ai nostri giorni tanti papà camionisti impediscono (o almeno ci provano!) alle proprie figlie di seguire le loro orme!

Mi sono seduta su quella panchina e ho immaginato di poter scambiare due parole con lei, di poterle chiedere tante cose della sua vita da ragazza camionista… di poterle dire grazie per avere aperto la porta a tutte noi che dopo di lei abbiamo avuto la voglia e la forza di salire su un camion e di affrontare la strada. 

 

 

Non è facile ancora oggi entrare in questo settore sempre troppo maschile, è vero che le cose stanno pian piano cambiando, ma la strada è ancora lunga e la si costruisce con la tenacia di tutte quelle donne che non rinunciano a realizzare il proprio sogno nonostante tutti gli ostacoli che devono affrontare.

Un ultima cosa, un appello a chi si siede, magari alla sera, su quella panchina e sulle altre li intorno: è vero che il cestino dei rifiuti era pieno, ma perchè sporcare tutto, perchè buttare carte e cartoni per terra? E’ brutto farlo già normalmente, ma è ancora più brutto pensando a cosa Teresina ha rappresentato per Settimo Torinese, è una mancanza di rispetto alla sua memoria, anche se quello non è il luogo in cui riposa…

Grazie, buona strada sempre!

La storia di Francesca alla guida degli autobus

 

La storia di Francesca, una giovane donna alla guida degli autobus.

Questo è il link dell’articolo:

https://www.corrierecesenate.it/Rubicone/Francesca-la-giovane-che-guida-gli-autobus

E questa la sua storia:

 

Francesca, la giovane che guida gli autobus

D’inverno guida lo scuolabus e d’estate copre la linea “R” per il mare

 

Francesca Foschini

A vederla tra i ragazzi che porta tutti i giorni a scuola, andata e ritorno, si confonde con loro. Minuta e giovane, Francesca invece è l’autista che d’inverno guida lo scuolabus dell’Unione Rubicone e mare e d’estate copre la linea “R”, al mare e viceversa, ogni giorno, tutti i giorni.

Vedere una donna al volante di un autobus, ma anche di un’ambulanza o addirittura di un camion, è un evento sempre più frequente, eppure non ancora comune e ogni volta desta curiosità e anche un po’ di sorpresa.

Lo conferma anche lei, Francesca Foschini, 33 anni, di Gambettola, da due anni vive a Sala di Cesenatico, alle prese con motori e annessi e connessi sin da giovane età. In possesso della patente da sei anni, prima si occupava del rifornimento dei mezzi di Start Romagna muovendoli, senza persone a bordo, dall’autorimessa alla stazione del metano o del gasolio per farli trovare pronti all’uso.

Dal giugno del 2022 è l’autista della linea estiva “R” per Start Romagna, dipendente di Autoservizi Casadei che fornisce il servizio a Start. La cesenate Servizi Casadei su un totale di 50 autisti, impiega oltre a Francesca, altre cinque donne.

Dallo scorso autunno la giovane autista ha preso in mano anche gli scuolabus, a inizio estate lascia e riprende il servizio di collegamento terra mare da Savignano, San Mauro e Gatteo. Magra e minuta, guida anche i dodici metri con 51 posti.

“Ho iniziato – racconta – dopo che, come volontaria nel 2015 in una comunità di ragazzi con disturbi psichiatrici, facevo l’addetta al trasporto con un furgoncino di massimo otto posti. Da quella prima esperienza ho iniziato a valutare l’idea di trasformare la passione per la guida in una professione e ho cominciato a prendere tutte le patenti e le certificazioni necessarie. Ora eccomi qua”.

Come si sente, donna in un mondo come quello dei conducenti, popolato in genere da uomini?
“Sono sincera, mi sento coccolata anche se confermo che la mia presenza a bordo, al posto della guida, desta sempre una certa curiosità. Anche negli insegnanti che poi imparano a conoscermi e si fidano di me”.

Guida per passione?
“Guidare mi piace perché dà un grande senso di libertà. Questo mestiere è di grande responsabilità, noi autisti siamo una categoria che si ribella da anni per ottenere condizioni di lavoro ed economiche migliori. Questa è tuttora anche la mia personale grande battaglia”.

Sempre Elda!

 

Questo articolo non è nuovo, risale a ottobre 2020, ma visto che non l’avevo trovato prima e quindi non l’avevo condiviso, lo faccio adesso, anche perchè racconta la storia della nostra Elda vista attraverso gli occhi di sua figlia Marta quando parteciparono al programma “Tutto su mia madre”.

Questo è il link:

https://mattinopadova.gelocal.it/padova/cronaca/2020/10/21/news/la-donna-al-volante-del-man-che-vince-il-pregiudizio-1.39445083

E questo è il testo:

 

l personaggio

«Mia mamma fa la camionista».

Non ci credeva nessuno, vent’anni fa, quando Marta Pegorin raccontava la professione della madre, Elda. La storia, tutta cittadellese e con le mura a fare da suggestivo sfondo, è stata svelata dal programma di Rai Tre “Tutto su mia madre”, che riprende un capolavoro di coralità al femminile di Almodovar. Oggi Elda Guarise, 57 anni, e il marito Giovanni Pegorin hanno una ditta di trasporti a conduzione familiare dove lavora anche la primogenita Marta, che si occupa di contabilità. «I miei genitori guidano il camion. Anche mia mamma. Tutti pensano ad un camioncino. Quando la incrociano dal vivo esclamano: “Ma non immaginavo così grande”»: è l’incipit della testimonianza di Marta, 37 anni, tre figli. Quello di mamma Elda è un carattere fermo: «Non sono una fru fru, fatico a dire “ti voglio bene”, ma i messaggi sul telefonino aiutano».

Una storia di fatica, di Nordest laborioso, di prime occupazioni a 14 anni, di sudore e di famiglie che crescono.

«Non c’erano tante possibilità», spiega l’autotrasportatrice, «a 14 anni ho iniziato a lavorare, in un magazzino di frutta, arrivavano camion dall’estero, grandi, mi ricordo il rumore del frigo che funzionava». Poi arriva l’incontro con il futuro marito, è un amore importante, a neanche vent’anni Elda diventa mamma di Marta, che però si lamenta, nel quartiere in cui cresce non ci sono tanti bambini, e la famiglia aumenta, arrivano Mattia ed Ermes.

Poi arriva lo sfratto, il condominio viene messo in vendita, mamma e papà decidono di trovare una nuova soluzione, scelgono la casa, con un’attenzione particolare per il camion di Giovanni. Che, a cavallo del 2000, lancia una proposta alla moglie: «Perché non prendi la patente del camion?». Lei ci pensa, poi si butta, va alla scuola guida, registra le lezioni, le riascolta mentre si occupa della faccende domestiche, all’esame teme le domande dell’ingegnere, che la interroga sul cambio, il suo punto debole.

Da lì, la vita cambia: levatacce, ritorno alla sera tardi, e i piccoli prendono confidenza con i post-it e le indicazioni di mamma, che non è più lì a seguirli, a fare colazione con loro. Prepara tutto e poi parte, via a lavorare. Marta cresce in fretta, tocca a lei prendersi una buona fetta della cura dei fratellini.

«Inizialmente affiancava papà e poi è partita. Lui le diceva “devi viaggiare da sola se vuoi imparare”. E poi è arrivato il suo camion», racconta la figlia. Elda se lo personalizza, ci mette il suo tocco femminile: «Mi sono sempre piaciute le tende. Il primo aveva i sedili bianchi e le finiture gialle, un confetto». Non sono mancati gli episodi di sessismo, i veleni: «Che vada a lavare i piatti». Ma Elda ha tirato dritto: «Si infastidiscono di più se sei indifferente». E la famiglia le è sempre rimasta vicina: «Non l’ho mai criticata», ricorda Marta, «anche se la chiamavo sempre, le chiedevo dove fosse, e le raccomandavo di chiudere i finestrini. Una notte mi ha chiamato, si è dovuta fermare, c’era vicino a lei una persona poco raccomandabile, siamo rimaste al telefono, e alla fine è partita». Chi sta sulla strada incrocia pericoli, ogni giorno. A settembre del 2009 Elda è stata coinvolta in un incidente: «Avevo una consegna unica, ero tranquillissima, in sorpasso, quando mi si è parata davanti una colonna, il camion che avevo davanti a me mi è entrato in cabina». Marta ricorda quegli istanti: «Mamma piangeva e urlava, sono corsa, il camion era accartocciato, ma lei non aveva un graffio». Ma il martito l’ha spronata: «Riprendi e vai». È ritornata, alla sua passione, al suo lavoro, «con la volontà di portare avanti un progetto di famiglia». E ora i nipotini sono entusiasti del camion di nonna, uno spazio di gioco, che trasmette loro il senso dell’avventura. Scenderà? «Solo quando mi toglieranno la patente». —

Camion d’epoca…in Germania!

 

La passione per i camion d’epoca non è solo italiana,  naturalmente paese che vai,  modelli che trovi !

Queste foto me le ha inviate un amico e collega tedesco, Michi di Hannover. Qualche settimana fa ha partecipato, insieme a due suoi cari amici, a un raduno di camion d’epoca a Lohne/Dinklage. Lui col suo Mercedes 16.35 blu e gli altri due con un altro Mercedes 16.35 rosso e un TurboStar 190.48… di provenienza italiana!

Le foto sono state scattate durante il viaggio per raggiungere il raduno e poi nel parcheggio insieme agli altri camion. E anche qui, in un vero e proprio tuffo nel passato di 30/40 anni fa, possiamo vedere, tra gli altri. uno splendido 190.38, versione Special, anche lui decisamente di origini nostrane!

Grazie a Michi per le foto e per avermi dato la possibilità di condividerle!

La storia di Barbara!

 

Una nuova intervista di Elisa Bianchi a una delle nostre colleghe!

Questa volta ci racconta la storia di Barbara, dal suo sogno di bambina alla sua lunga carriera al volante di un camion, naturalmente sempre sul sito di “Uomini e trasporti” nella pagina “Anche io volevo il camion”.

Buona lettura e buona strada sempre!!!

Il link dell’articolo:

https://www.uominietrasporti.it/uet-blog/anche-io-volevo-il-camion/barbara-strozzi-la-contessa-acida-dellautotrasporto-si-racconta/

 

Inizia cosi:

Barbara Strozzi, la «contessa acida» dell’autotrasporto si racconta

51 anni di cui 23 trascorsi alla guida del suo camion, Barbara Strozzi è una veterana del settore. Salita a bordo a 26 anni con due figlie piccole e la famiglia contraria, Barbara si è fatta strada – e soprattutto un nome – in un’epoca in cui le donne al volante erano ancora poche, ma i sogni erano tanti e soprattutto grandi…quanto un bilico

«Sono una bimba di nove anni quando vedo per la prima volta un camion e subito me ne innamoro». Inizia così la storia d’amore tra Barbara Strozzi e il mondo dell’autotrasporto. Un amore a prima vista che da 23 anni a questa parte non si è mai affievolito. Quando la intercettiamo è naturalmente alla guida, «ma ho l’auricolare» ci rassicura con la sua voce allegra e l’inconfondibile accento bolognese delle sue origini, anche se ormai da tempo vive a Ferrara. Scopriamo solo in seguito che per parlare con noi ha abbassato la radio che tiene sempre accesa a farle compagnia con un po’ di musica: «Anche techno, a volte» ci rivela. Barbara ha l’anima grintosa di una veterana che per realizzare il suo sogno ha dovuto farsi le ossa e mentre i chilometri scorrono sotto le ruote del suo camion, la mente vola al passato, a quando era solo una bambina che con occhi sognanti guardava i “bestioni della strada” dal balcone di casa, accanto al distributore di benzina dove si fermavano a fare rifornimento prima di ripartire per lunghi viaggi che allora Barbara poteva solo immaginare.

«In famiglia non c’erano camionisti, per cui quando dicevo che avrei voluto fare questo mestiere da grande nessuno mi prendeva sul serio». Tra il dire e il fare, però, c’è di mezzo la vita e i piani di Barbara, crescendo, cambiano: «A 18 anni mi sono sposata e insieme al matrimonio sono arrivate a distanza di quattro anni l’una dall’altra due bambine, Sabrina e Francesca.
All’epoca lavoravo già in una ditta per la quale guidavo furgoni, ma il mio sogno di guidare un camion, uno vero, è sempre rimasto. Nessuno immaginava che avessi ancora voglia di inseguirlo, ma dopo la nascita della seconda bambina mi sono decisa a iscrivermi a scuola guida e prendere la patente. Avevo 26 anni e tutta la famiglia era contraria, ma non c’è stato verso di farmi cambiare idea».

Il sogno inizia a prendere forma quando viene assunta come autista. Un lavoro giornaliero che le consente di rientrare la sera e occuparsi delle figlie ancora piccole. Quando le bambine crescono, Barbara inizia a viaggiare anche all’estero: il Sud della Francia, la Germania, ma soprattutto la Svizzera e in un’occasione anche la Spagna. Ed è proprio di quel viaggio avvenuto nel 2010 che conserva uno dei ricordi più belli: «Arrivammo a Valencia dopo due giorni bellissimi di viaggio. Stavamo facendo un trasporto per una ditta di catering che doveva gestire un evento per la Ferrari, in occasione del Gran Premio di F1. La vista dell’autodromo pieno di auto meravigliose sarebbe di per sé bastata per farmi portare a casa un ricordo bellissimo, ma l’ultima sera, prima di ripartire, presentavano la nuova auto con la quale avrebbero corso il Gran Premio. Stavo parlando con i meccanici di Maranello quando a un certo punto entra in sala un ragazzino, guarda la macchina, stringe la mano a tutti, compresa a me, e poi si allontana. Era Fernando Alonso. Ho stretto la mano ad Alonso!». A sentirla raccontare questo episodio Barbara sembrerebbe ancora incredula. «Ma non fu l’unico incontro interessante fatto durante la mia carriera di autista: in pausa a un Autogrill incontrai anche Raz Degan. Io uscivo, lui entrava con la troupe per le riprese. Non si fanno certi incontri se si fanno altri lavori» ci dire ridendo e aggiunge che il suo sogno sarebbe stato quello di guidare un bilico per il Cavallino Rampante. «Ti immagini, la prima donna autista in Ferrari, mi sa che resterà solo un sogno nel cassetto però». In realtà, non è l’unico. «All’epoca mi sarebbe piaciuto aprire un’azienda di autotrasporto tutta mia, di sole donne, ma dopo aver fatto qualche calcolo mi sono resa conto che sarebbe stato un debito troppo grande da pagare. Tra l’altro, all’epoca non era facile trovare donne autiste, ce ne erano molte meno. Ho scelto di non rischiare e di abbandonare quella strada. Lo ammetto, oggi mi è rimasto un po’ il rimpianto».

L’avventura estera termina con la nascita di altri due bambini, i gemelli Alessandro e Andrea che oggi hanno 13 anni. Nel frattempo, Barbara inizia a lavorare per una piccola ditta vicino a casa per la quale trasporta ortofrutta nei mercati e nei supermercati, «Lavoro di notte e di giorno mi occupo della famiglia» spiega. La domanda, però, sorge spontanea: ma Barbara, quando si riposa? La risposta arriva ancora una volta sincera e allegra: «Non sono mai stata una dormigliona per fortuna, mi basta qualche ora al giorno e sono di nuovo carica. D’altronde ho preso questa decisione per non stare troppo lontana dai bambini, anche se per loro è stato più facile perché con la mamma autista ci sono nati, ma le prime due figlie da piccole hanno patito un po’ di più la mia mancanza e non mi andava di essere poco presente anche per i gemelli. Oggi che sono più grandi è più facile, non hanno più bisogno costante della mamma, anche se adesso ci sono anche le nipotine a cui badare». Tre, per la precisione: Veronica di 13 anni, Asia di 12 e Kawthar di 7. Ed è proprio quest’ultima che sembrerebbe aver già la grinta della nonna che oggi, a 51 anni, non ha assolutamente intenzione di appendere il volante al chiodo e vorrebbe trasmettere la passione a una futura erede: «Kawthar segue con attenzione quando faccio le manovre o i posteggi e dice di voler fare l’autista da grande, ma è ancora presto per dirlo». Anche se è di poco più piccola di quella bambina che si sporgeva dal balcone di casa per guardare i camion e alla fine, quel sogno, l’ha realizzato.


 

 

Il resto della storia lo potete leggere al link:

https://www.uominietrasporti.it/uet-blog/anche-io-volevo-il-camion/barbara-strozzi-la-contessa-acida-dellautotrasporto-si-racconta/